Robert il tedesco

AS Roma Match Program (T.Riccardi) – Questa è una storia non a lieto fine e il cui epilogo è tristemente noto. Una storia che ha a che fare con il calcio, ma nella quale il calcio è solo una musica di sottofondo. Questa è una storia che riguarda il Borussia Moenchengladbach, anche se il Borussia non c’entra niente. Questa è una storia che avrebbe potuto riguardare pure la Roma, anche se la Roma non sarebbe c’entrata niente. È la storia di Robert Enke, portiere tedesco nato nel 1977 a Jena nella Germania Est e scomparso nel 2009. Un passato nel Borussia Moenchengladbach, il suo primo club di Bundesliga, e una trattativa di mercato con la Roma arrivata a buon punto, ma poi mai concretizzata. Cose di calcio, normali, come tante altre. È la storia soprattutto di un destino infame, segnato da una malattia silenziosa e nascosta: la depressione. Il prossimo 10 novembre saranno trascorsi dieci anni dalla morte di quest’uomo alto e strutturato, che si tolse la vita gettandosi sotto un treno all’età di trentadue anni, nel pieno dell’attività agonistica, quando sembrava che la sua carriera potesse conoscere il punto più alto potendo difendere i pali della sua nazionale (la Germania) in un campionato del mondo, quello del 2010. Tutto finisce nel 2009, da un momento all’altro. Senza preavviso alcuno. In una data qualsiasi, in una giornata in cui lui quando era uscito di casa aveva detto alla moglie Teresa Reim: “Vado ad allenarmi“. Non ci andrà mai davvero. Guida per otto ore fino ad arrivare fino ad arrivare a un passaggio a livello della città di Eilvese. Robert si ferma, scende dalla macchina e si butta sotto un treno regionale che viaggia a 160 chilometri all’ora. La notizia fa subito il giro della nazione.

Arriva fino ai vertici del calcio tedesco, al commissario tecnico Joachim Loew, che si dichiara “vuoto, senza parole, completamente scioccato“. Così come tutti i compagni di squadra dell’Hannover 96, dove Enke aveva ritrovato fiducia e titolarità dopo le esperienze poco positive al Barcellona, Tenerife e al Fenerbahce. In Spagna, in particolare, incappa in un momento storico per il club blaugrana non eccelso. In una di quelle stagioni – 2002-2003 – prive di titoli e successi per i catalani. Cosa rara da quelle parti. La colpa non può essere certo di Enke, che non viene quasi mai preso in considerazione dal tecnico Van Gaal, uno non proprio tenerissimo e malleabile nei rapporti. Tanto che quando Robert va da lui per chiedergli rassicurazioni, l’allenatore gli risponde “Io non so nemmeno chi sei“. Enke proviene dal Benfica, dove era stato dal 1999 al 2002 diventando anche capitano. Si trasferisce a Barcellona a parametro zero. Il suo momento arriva l’11 settembre 2002, in una partita di Coppa del Re tra il Barcellona e il Novelda, una squadra che giocava nell’equivalente spagnolo del campionato italiano di Prima Divisione. Agli amici prima della gara confida: “Se vinciamo, tutto sarà normale. Se perdiamo, le responsabilità saranno le mie“. Il Barça cade inaspettatamente 3-2 e viene eliminato dal torneo. Frank de Boer, forte difensore olandese che allora era capitano della squadra, al termine della partita striglia in mezzo al campo Enke e nelle dichiarazioni post gara attribuisce la sconfitta al portiere: “È colpa sua“. Di fatto, l’esperienza catalana finisce qui nonostante disputi anche un paio di partite di Champions League, nella fase a gironi, prima di essere ceduto in prestito al Fenerbahce e al Tenerife in serie B spagnola.

Tuttavia, il passaggio che segna la sua vita più di altri è fuori dal rettangolo verde e dalla comfort zone della porta. È l’anno 2006, Lara Enke, la figlia di Robert e Reim, muore per una rara malattia respiratoria a due anni. Difficile trovare sollievo altrove, tantomeno nella professione. Quel percorso già oscuro della sua vita diventa buio. Non gli basta diventare in campo leader e simbolo dell’Hannover 96, venendo designato titolare della Germania per la rassegna iridata in Sudafrica, come successore di Jens Lehmann. Gli addetti ai lavori lo ritengono più affidabile del giovane Manuel Neuer. Eppure, dietro quell’aspetto teutonico e apparentemente sicuro, si nasconde un ragazzo fragile e indecifrabile. Solo la moglie è a conoscenza del disagio interno, tanto che gli consiglia di parlarne con un terapeuta, anche se non arriverà mai ad immaginarsi il gesto di quel tardo pomeriggio del 10 novembre 2009. Compiuto due giorni dopo una partita pareggiata 2-2 con l’Amburgo, con la fascia di capitano al braccio. Il 18 novembre, otto giorni dopo il suicidio di Enke, la Germania disputa un’amichevole contro la Costa d’Avorio. In porta gioca Neuer perché Rene Adler, il portiere con cui Enke si contendeva il posto da titolare, aveva un’infezione a un occhio. Neuer indossa la maglia con il numero 12, mentre quella con il numero 1 – di Enke – viene posata su un posto vuoto nella panchina tedesca.

E la Roma? La Roma sarebbe potuta diventare una sua squadra, nel 1999. Quando ha 22 anni e sulle spalle porta l’etichetta di nuovo Sepp Maier. Enke è in scadenza di contratto con il Borussia Moenchengladbach e la società giallorossa si fa sotto offrendogli un nuovo accordo, più remunerativo. La dirigenza della Capitale è alla ricerca di un nuovo estremo difensore per la stagione, di uno più giovane del trentasettenne Michael Konsel o di un interprete più affidabile di Antonio Chimenti. L’identikit di Robert è perfetto: giovane, talentuoso e ambizioso. Ma non se ne fa nulla, come in tante trattative di mercato. L’ingaggio richiesto dal portiere non è in linea con le aspettative della Roma. Nulla di fatto. Tanto che la scelta cadrà sul trentenne Francesco Antonioli, colui che diventerà il portiere del terzo scudetto societario. Il percorso di Enke prosegue al Benfica, dove viene apprezzato. E poi, tutto il resto della vicenda. Non a lieto fine. La storia di Robert il tedesco.

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