Non più trotto ma degrado. Dilemma: cemento o il nulla

La Gazzetta dello Sport (V.Piccioni) – Altro che Mandrakate o Febbre da cavallo. La Tor di Valle di sabato al tramonto ci fa pensare, al primo impatto, alla scena madre di una fiction poliziesca o a una storia di periferia estrema o surreale, un incrocio fra Rocco Schiavone e Jeeg Robot, fra sentieri nascosti, scheletri di casali, buche formato voragine. Una specie di post metropoli che sembra quasi dare ragione agli abitanti di Tecla, una delle città invisibili di Calvino. Che alla domanda sul «perché costruire così a lungo», rispondono: «Perché non cominci la distruzione». Distruzione che ha spesso come anticamera la desolazione, la parola che illustra meglio proprio la via intitolata all’ormai ex ippodromo adiacente. Mucchi di spazzatura mordono la strada per diverse centinaia di metri e mettono addosso la voglia di andarsene il prima possibile. Al di là delle barriere c’è lui, il tempio del trotto di ieri e lo stadio della Roma di domani o aspirante tale. Se sei venuto con un’idea categorica, è il luogo giusto per cambiarla: perché qui tutto diventa un gigantesco punto interrogativo. Come quella scritta che andrebbe a pennello su un tornante del Terminillo o del Mortirolo ma che invece quaggiù sembra fuori posto. Su una lamiera, infatti, si legge: Marco Pantani. Ma la calligrafia è diversa da quella delle strade ciclistiche e diventa un’altra domanda senza risposta.

NON SI PUÒ ENTRARE – Dunque questo è il posto che fa litigare di più Roma. Sotto la stazione, lo capisci subito con una scritta che deve avere già qualche mese: «No stadio». La ferrovia è ingabbiata da una collezione di lavori in corso. «Ma stanno andando avanti», dice fiducioso e al tempo stesso svogliato un ciclista che indossa una maglia di inizio millennio: dopo Pantani, ecco Lance Armstrong. L’area «rossa» sta sul lato opposto della via del Mare, l’insegna sembra quella di un Luna Park in disarmo. Ma non ci sono giostre o montagne russe, piuttosto un posto di controllo e un custode gentilissimo che allarga le braccia: «Mi dispiace, non posso farvi entrare». Proprietà privata, precisamente di Eurnova, il gruppo Parnasi, quello che dovrebbe fare o farà lo stadio. La tribuna capolavoro disegnata dall’architetto Julio Garcia Lafuente con la sua «arditezza costruttiva», le parole usate nel parere della soprintendente Eichberg per sottolinearne la necessità di tutela e il conseguente no al progetto delle impianto calcistico, per ora è solo un’immagine lontana. Un passo indietro ed ecco una specie di finestra dove non serve il binocolo per incontrare l’Eur. Se non altro non piove di brutto, come quel giorno in cui la storia prese il via, il 26 dicembre del 1959, quando Tor di Valle cominciò la sua missione: rimpiazzare il «sacrificio» della pista di Villa Glori, il terreno su cui era nato il Villaggio Olimpico. L’ha fatto per 54 anni, prima di cambiare mestiere: niente più cavalli, ma il pallone. Però il nuovo lavoro è lontano dal cominciare.

CICLABILE E CICLISTI La prima impresa è trovare qualcuno che abbia voglia di parlare. Anzi, è trovare qualcuno. Sulla via dell’ippodromo di Tor di Valle, quella piena di sporcizia, non c’è anima viva. Ma sulla sinistra, c’è un puntino che si muove. È proprio lei, la pista ciclabile, miracolosamente (l’avverbio è ingeneroso, ma venendo dalla parallela, è davvero meritato) ripulita. È qui che Andrea, portacolori della Cicli Roma, si diverte su due ruote. «Ma che fai, le ripetute?» «Diciamo che mi diverto». Una frenata e finalmente possiamo rivolgere la fatidica domanda sullo stadio: «Che vi devo dire, guardate qui quanto verde c’è, se lo facessero sarebbe un macello». Non è però un no assoluto, piuttosto un punto di vista sussurrato, «bisognerebbe vedere, se riuscissero a rispettare il parco…Forse ci vorrebbe solo un po’ di pulizia». Rispetto a prima, lo sguardo incontra un paesaggio più rassicurante. C’è pure il Tevere, che qui si sta preparando a curvare.

NIENTE DUBAI – «Ma la ciclabile di ora è tutt’altra cosa. Prima era una giungla, ci passava a stento una bicicletta, poi ad agosto la Raggi ha fatto tagliare tutte le canne e l’erba alta». E la sindaca incassa almeno la medaglia d’oro della potatura. Ernesto non pedala, corre a piedi, tutto sommato non è neanche troppo dispiaciuto di fermarsi, qualche parola fa da alibi per riposare un po’. «Corro, ma niente gare. Durante la settimana faccio il meccanico e il sabato e la domenica…eccomi qui». Anche nelle parole, l’interrogativo (nel senso di punto) batte l’esclamativo: «Se facessero una cosa giusta, rispettando il parco. Certo, se poi vogliono fare i grattacieli di Dubai, allora meglio lasciar perdere». Sulla superficie, ci sono le classiche scritte dei percorsi podistici. Ma l’ippodromo dov’era o dov’è? «Continuate per qualche centinaio di metri, vedrete le scuderie e poi a sinistra, la tribuna». Vai che ti freddi, a presto Ernesto.

IL DILEMMA – C’è costato un chilometro di auto e un altro a piedi, ma ora siamo vicini alla tribuna, e almeno su questo la soprintendente deve avere ragione quando scrive: «La struttura è tuttora fruibile, anche per le visuali che da essa si godono, non solo dalla pista ma anche dal contesto urbano circostante». Il problema è che di là non si può andare, non si può prendere posto sotto gli 11 «ombrelli» a forma di paraboloide iperbolico finiti sulle riviste di architettura. È il momento di immaginare l’epoca d’oro di Varenne e i 22mila spettatori di una volta. Ma oggi non è più questa la fotografia, si è passati dal pienone a un vuoto, un vuoto di pochi, un vuoto che sembra in qualche modo una permanente occasione sprecata. E ti chiedi se ci sia una strada vera, fuori dalle polemiche, dai partiti presi, dal timore di scontentare i tifosi del sì o quelli del no a tutti i costi, per superare il dilemma colate di cemento/immobilismo e degrado. Intanto compare Elio con i suoi due cani. Forse lui ha le idee più chiare degli altri: «Non possono farlo, qui ci sono ancora le volpi e l’istrice, più sotto le lepri. Io ci vedrei un bel parco tipo WWF, perché non si può fare? E poi a me non piacciono i tifosi del calcio, mica sono come quelli del rugby».

LA PORTA CHE NON C’È – Il giro turistico per l’ippodromo che fu e lo stadio che fatica come un matto a diventare tale sta finendo. Il sole sta calando, Tor di Valle sembra salutarci con un’alzata di spalle. Qui l’eco della battaglia di carte, parole, accuse, appelli, pare perdersi. Chissà perché ci sorprende il rimbalzo di un pallone. Un ragazzino palleggia con il papà vicino al casale abbandonato pure dalle pecore. Cercando, senza trovarla, una porta per fare gol.

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