Il Corriere dello Sport (R. Maida) – Era già successo, succederà ancora. Quando è caldo, quando è a caldo, José Mourinho fatica a pacificarsi con il concetto di indulgenza. Da Bodø a Ginevra, passando per Milano e Praga, attacca frontalmente i giocatori se si sente tradito nello spirito.
Perdona l’errore singolo, vedi il gol del Servette causato da uno strafalcione di Cristante, non il condensato di sciocchezze che ha visto giovedì sera. E tante, troppe altre volte in due anni e mezzo di Roma.
Non è un modo per sottrarsi alle responsabilità, anzi da allenatore e da caposquadra la sua frustrazione è non capire come scuotere un gruppo di calciatori che difettano spesso della giusta mentalità, requisito minimo della costanza di rendimento. «Dipende tutto dai giocatori, Mourinho è un grande e trasmette gli stimoli corretti» ha detto ieri Francesco Totti. Forse allora stiamo parlando non di una verità di parte, ma della verità.
Stavolta Mourinho ha usato addirittura un’iperbole dai toni macabri per descrivere la delusione: «C’è chi ha perso un’occasione. C’è chi bussa alla mia porta chiedendomi i motivi per i quali non gioca più spesso. Da adesso questa gente deve sapere che giocherà solo quando gli altri sono morti». Con chi ce l’aveva? Facile pensare ad Aouar, il nuovo arrivato, che in quattro mesi di Roma ha stabilito un record paradossale: pur segnando 2 gol in Serie A, che per un centrocampista non sono pochi, non ha mai convinto l’allenatore, che spesso lo ha punzecchiato pubblicamente proprio per stimolarlo.
Ma anche El Shaarawy, una pepita da estrarre dalla panchina, ha deluso Mourinho nelle occasioni in cui è stato scelto come titolare: contro il Servette, per esempio. A Celik, Mourinho non ha molto da rimproverare: non è un terzino che affronta le partite «in modo superficiale», è semplicemente un calciatore che combatte con i suoi limiti.
Ma l’accusa più seria è stata rivolta ad alcuni dei fedelissimi. Quelli che «se vanno in panchina in Europa, poi magari entrano senza l’atteggiamento che servirebbe ad aiutare la squadra». E qui è facile decriptare il messaggio: a Ginevra sono entrati in ordine cronologico Pellegrini, Spinazzola e Renato Sanches. Il capitano, che ha avuto anche un colloquio individuale con il capo, ha in effetti faticato tantissimo nei quaranta minuti in cui è stato utilizzato. Ma ha l’attenuante di 52 giorni di inattività, cominciati proprio dopo la partita d’andata contro il Servette e terminati domenica scorsa. Non può ancora essere al cento per cento.
Resta da vedere se Mourinho potrà o vorrà aspettarlo. Perché da lui pretende la qualità che è spesso mancata nel centrocampo di questo autunno. Quanto a Spinazzola, beh, è stato investito a inizio stagione del ruolo di titolare. Ha spazzato via la concorrenza di Zalewski, che è sempre più ai margini della squadra. Ma ha avuto fin qui un rendimento insufficiente. I maligni dicono che sia poco sereno per la questione del contratto in scadenza. Ma il senso di milionaria precarietà non basta a spiegare un contributo così insignificante a Ginevra.
Renato Sanches infine è un caso a parte: come Smalling, ha fatto arrabbiare Mourinho perché è spaventato dal dolore e dagli infortuni. Ma per quanto ha mostrato nelle ultime settimane, non è un giocatore che può sostenere le ambizioni della Roma. Semmai è il perfetto interprete del gruppo che in trasferta ha vinto solo quattro partite in tutto il 2023: galleggia senza nuotare.