Dai tram del Quadraro ai Castelli Romani, passando per lo stadio Azteca: unico romano in campo nella “Partita del Secolo”, Giancarlo De Sisti è un pezzo di storia del calcio italiano. Centrocampista di regia, classe 1943, vinse il primo Europeo azzurro nel ’68 e lo scudetto con la Fiorentina, dopo aver iniziato la carriera nella Roma, con cui alzò la Coppa delle Fiere del ’61. Oggi, a 82 anni, segue la Primavera giallorossa per il nipote Giacomo. La sua intervista a Il Corriere della Sera:

Io di essere romano mi sono sempre vantato…
«Anche quando giocavo con la Fiorentina, dove tornai da allenatore, perdendo uno scudetto all’ultima giornata nell’81-82. Quando arrivai la prima volta trovai Claudio Merlo, che avevano preso dalla Tevere Roma: andavamo dai nostri compagni e chiedevamo: ma tu dove sei nato? Anche al militare, se dicevi che eri di Roma, era tutta un’altra cosa».

Era una Roma diversissima da oggi, con ancora le macerie della guerra…
«Avevo due anni quando finì la Seconda Guerra Mondiale, l’ho vissuta più nei racconti dei miei genitori. Ci portavano a Monte del Grano, nei rifugi contro i bombardamenti. In Messico, con la Nazionale, ci dicevamo che eravamo i Figli della Guerra: cresciuti nelle difficoltà, non avevamo paura di niente. Io vengo dal Quadraro, quartiere popolare, dove entravo e uscivo in punta di piedi, rispettando le regole e l’educazione che mi hanno dato i miei genitori. Malfamato? Non direi, i matti stanno dappertutto».

Di sicuro è un quartiere che ha una storia legata proprio a quel periodo.
«Un quartiere premiato per la resistenza contro l’occupazione nazista: i tedeschi dalle mie parti non li voleva nessuno. Kappler si vendicò col rastrellamento del Quadraro (17 aprile 1944). Molti furono presi in un cinema, deportarono i maschi. Tra questi c’era mio padre. Lo misero su un treno verso Terni, poi Firenze, poi verso Fossoli. In una curva il treno rallentò: alcuni, tra cui mio padre, saltarono e scapparono nel bosco. Ci mise mesi per tornare a casa. Noi non sapevamo nulla. Lo seppi dai racconti di mia madre. I miei ricordi veri iniziano dopo, alla parrocchia Maria del Buonconsiglio, dove andavo a giocare. Mia madre si arrabbiava e bucava il pallone, mio padre me lo ricomprava. Andò avanti finché mia madre disse: “Se deve giocare, deve trovare un posto dove fare anche la doccia”».

E sta per spuntare la Roma.
«Mio padre parlò con uno che conosceva, ex Forlivesi, società satellite giallorossa, al campo di San Lorenzo. Feci il provino, mi presero subito. Mi voleva anche l’Omi, che non esiste più. Mi avrebbero dato 36 mila lire di stipendio mensile: avrei aiutato in casa. Ma mio padre si impose: “Il ragazzo deve studiare e andare alla Roma”. Avevo 13 anni e mezzo».

Dove giocavano le giovanili all’epoca?
«Sulla Tiburtina, ai campi della famiglia Gianni, che poi sarà anche presidente della Roma. Oppure al Campo Roma, dell’impianto Romulea, a San Giovanni: quello c’è ancora. Giocavo sotto età, con ragazzi di due anni più grandi: Pietrantoni, Brunelli, Gualandri, Baldelli, Ginulfi, il portiere che in un’amichevole col Santos parò un rigore a Pelé. Poi, in prima squadra, alle Tre Fontane. A volte mi accompagnava Alberto Orlando, ma la maggior parte delle volte mio padre».

I suoi genitori che lavoro facevano?
«Mamma, Maria, alla Centrale del Latte; papà Romolo alla StFer, azienda dei trasporti. Guidava il tram, poi ebbe un incidente e lo misero a fare l’usciere. Aveva anche una squadra di calcio, la StFer: andavo a vederla al Motovelodromo Appio».

Metro che all’epoca non c’era ancora.
«Li hanno tolti quasi tutti negli anni ’80, ora li stanno rimettendo: si sono accorti che sono utili. Roma era senza metro, ma anche molto più piccola».

Adesso lei vive ben fuori dalle mura.
«Con mia moglie facevamo gite ai Castelli per un panino con la porchetta. Dopo il Mondiale del ’70 ci siamo fatti casa a Marino. Dopo tanti anni la mia Nadia è ancora al mio fianco: abbiamo tre figli, Claudia (giornalista Ansa), Barbara (architetto) e Marco (1977)».

Che si è fatto un buon nome come osservatore.
«Lavora da 18 anni per il Manchester United, era amico di Alex Ferguson. Una volta ci invitò al centro sportivo: Sir Alex ci servì a tavola!».

E ora c’è il nipote Giacomo.
«Figlio di Barbara, gioca nella Roma da anni, ha 18 anni, è in ritiro con la Primavera».

Cosa ha preso dal nonno?
«La serietà. La cosa più importante».