Dai Giochi allo stadio. La febbre del rancore e il populismo degli anti mattone

Corriere della Sera (E.Trevi) – È una grande fortuna vivere nelle vicinanze di un capolavoro. Puoi guardarlo ogni giorno, ma la bellezza ha questo di veramente magico, inceppa il normale meccanismo umano dell’abitudine, ti suggerisce che non hai ancora visto bene, che c’è ancora qualcosa che devi vedere. Gli abitanti di Roma almeno da questo punto di vista sono così fortunati che rischiano di non farci più nemmeno caso. Per me, una di queste fonti inesauribili di meraviglia è il Palazzetto dello Sport, opera progettata e costruita da due grandissimi maestri, Annibale Vittellozzi e Pier Luigi Nervi, tra il 1958 e il 1960, e inaugurato quell’anno per i giochi olimpici. Soprattutto di notte, le sere d’inverno, è un vero prodigio, una quadratura del circolo, una rete di linee rette che all’improvviso si trasforma in una sfera, o viceversa. Pura poesia in cemento armato. Costò, allora, 263 milioni: che non saranno stati pochi. Ma è ancora lì, è non è solo bello, funziona. Quindi se si divide la cifra al mese, tanto per dire, dal 1960, nessuno può negare che è un ottimo affare. In ogni città del mondo che abbia ospitato delle Olimpiadi si potrebbero trovare esempi del genere, forse non tutti belli come il Palazzetto dello Sport, ma accomunati dal fatto di durare molto più tempo delle Olimpiadi stesse.

Tutti sappiamo, d’altra parte, che a Roma è stata negata l’opportunità di ospitare una nuova Olimpiade, quella del 2024, dall’attuale governo della città. Roma produce quotidianamente un tale numero di notizie tristi e bizzarre che questa sarà ormai considerata una questione vecchia. Eppure, mi sembra che tornarci sopra sia un esercizio intellettuale utilissimo, e rivelatore di tanta pazzia che governa il mondo d’oggi. Si dice che il partito che è salito al governo di Roma sia di ispirazione populista. Io non so se sia il termine più adatto, perché nessuno dei diretti interessati lo accetta, non c’è nessuno al mondo che dica ebbene sì, sono populista. E in politica, le definizioni usate solo dagli avversari fatalmente mancano il bersaglio. Ad ogni modo, è innegabile che il movimento che ha trionfato alle ultime elezioni comunali romane è l’efficace interprete di un risentimento, di una frustrazione sempre più dilaganti nella nostra società. Questo rancore è senza dubbio giustificato dalla realtà dei fatti. Ma produce, in chi lo coltiva con particolare intensità, una specie di stato febbrile cronico, che non sempre è il migliore alleato dell’intelligenza. Per fare un esempio, inneggiare in coro a un concetto astratto come «l’onestà», scandendo le sillabe come tifosi della Roma o della Lazio, non mi sembra una manifestazione collettiva di intelligenza. Ma è proprio questo il singolare fatto che gli storici del futuro potranno meditare: l’«onestà» ha scacciato da Roma le Olimpiadi. Non i malfattori, non i parassiti. La prima, e l’unica cosa che ha fatto l’«onestà» a Roma è dire no alle Olimpiadi. Tutti sanno che le Olimpiadi sono una cosa bellissima in sé e per sé, a parte i grandi vantaggi materiali a cui accennavo. Eppure, per qualche oscuro motivo, «l’onestà» non le ha giudicate «oneste».

In una città così impoverita di immaginazione com’è oggi Roma, sarebbe un evento anche il nuovo stadio di Tor di Valle, ma guarda caso, anche lì «l’onestà» ci vede qualcosa da ostacolare in tutti i modi. Donald Trump, il colosso degli «onesti», dovrebbe andare a scuola dai nostri. Lui, se il muro col Messico lo vuole fare, deve cacciare fuori i soldi, e tanti. A Roma si ottiene lo stesso risultato demagogico a costo zero, impedendo semplicemente che le cose accadano. C’è da ammettere che noi italiani siamo geniali, nelle raffinatezze politiche. Altro che Messico. Abbiamo creato il vero, assoluto, indistruttibile muro populista: il muro fatto di nulla.

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