Il Messaggero – Tutto iniziò con Monti e Orsi

Non è il primo oriundo in Nazionale, Osvaldo detto ”Er cipolla”, e non sarà l’ultimo. All’inizio del secolo scorso Argentina e Uruguay, due paesi calcisticamente all’avanguardia, accolsero i nostri, che qui non avevano lavoro, pane e salute. Trovarono un pallone, praterie nelle quali correre e bistecche. Di cui avevano solo sentito parlare. Divennero atleti. Quando in Italia si arrivò al girone unico, gli Agnelli presero la Juve e convinsero Mussolini che, per carità niente stranieri, ma qualche oriundo ci avrebbe aiutato, anche in vista dei mondiali del 1934, che andavano vinti, visto che li organizzavamo. E chi sono gli oriundi? La parola viene dal latino oriundus, antico gerundivo di oriri: nascere. Italiani cresciuti altrove e desiderosi di ritrovare l’America in casa. In Europa giravano i primi soldi, essendosi avvicinate al calcio le grandi aziende. Ritornarono giovanotti robusti e bravissimi. Luis Monti era un armadio, che chiamavano, ma senza farsi sentire da lui, il “macellaio”. Andava, come si suol dire, per le spicce. Giocò, avvantaggiandosi di regole non ancora scritte, una finale con l’Argentina e una con l’Italia ed è il solo ad averlo fatto. Il più bravo, non ci sono dubbi, Mumo Orsi, piccolo, capelli con la riga in mezzo, un naso che faceva provincia e una classe che lo avvicina a Garrincha. Ala sinistra, di quelle che ti prendono in giro e poi vanno a far gol. A Roma c’era il “Corsaro nero”, Enrique (guarda caso) Guaita, che l’anno dopo il mondiale fece addirittura 29 gol in un campionato a sedici: record. Dobbiamo a questi giocatori il primo alloro. Guaita e Orsi scapparono nel 1935: c’era aria di guerra in Etiopia. Italiani sì, ma a corrente alternata. Riaprimmo negli anni sessanta, nel momento più nero del nostro calcio, che non si era ripreso dalla tragedia di Superga. Bei nomi, ma in Nazionale un flop: Schiaffino, Montuori, Angelillo, Lojacono, Altafini, Maschio, Ghiggia, Cesarini e la sua zona, Sallustro di cui si innamorò Napoli, Pesaola, Da Costa, Puricelli, il gentile e mite Sormani, l’irascibile Sivori. Chi più chi meno, fecero tutti male, se non peggio. L’Italia si riprese nel 1968, quando Valcareggi mise dentro calciatori nati qui: le bistecche non erano più un miraggio. Pensate a Riva, a Domenghini, a Boninsegna, a Facchetti. Non c’erano oriundi nel 1982, quando Bearzot impiegò ragazzi nati intorno agli anni sessanta, quelli del boom economico, delle vacanze a Riccione, del pesce due volte alla settimana. Di oriundi si tornò a parlare negli anni della globalizzazione: ma come, gli altri, vedi Francia e Germania li utilizzano e noi vogliamo fare i retrogradi? Lippi convocò Camoranesi, che un giorno disse: non canto l’inno per non offendere mio padre e poi non conosco neppure quello argentino. Fu utile, ma ci siamo sempre chiesti se ce ne fosse veramente bisogno. Non ce n’era di Amauri. Non ce n’era di Motta, i penultimi arrivati. Schelotto ha già giocato con l’Under 21 e sembra un Camoranesi più alto. Osvaldo raggiunse a suo tempo la nazionale giovanile, è nato in Argentina, ma sta qui, periodo catalano a parte, da molto tempo. Sempre oriundo è. Ma se non altro “Er cipolla” parla bene la nostra lingua.
Il Messaggero – Roberto Renga

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