Montella: “La mia Roma era la più forte poteva vincere tre scudetti ma soffrì la troppa pressione”

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Vincenzo Montella, allenatore della Sampdoria, ha rilasciato una lunga intervista al Corriere dello Sport. Queste le sue parole a Walter Veltroni:

«Ho cominciato a giocare al calcio appena sono entrato nell’età del comprendonio. I miei scenari di calcio primordiale sono quelli delle generazioni che hanno preceduto le scuole calcio, quelli dei figli di genitori che non potevano pagare le costose iscrizioni, quelli di chi andava a giocare con le magliette della scuola, non con le riproduzioni acquistate nei punti vendita delle squadre. Io ero tifoso del Milan e il mio mito era Van Basten».

Mi racconta della sua famiglia?
«Mio padre faceva due lavori per sostenere una famiglia di cinque figli. Il giorno era operaio all’Alfa Sud, principale bacino di occupazione per la zona, e quando non era alla catena di montaggio faceva il falegname. Ricordo che lavorava sempre, anche la domenica, anche in agosto. Non ricordo di aver mai fatto una vacanza, da piccolo. Era stare a casa con i genitori, la mia vacanza preferita. Quando avevo tredici anni mi fecero partire per Empoli. Mia madre piangeva e ancora oggi non si perdona di averlo fatto, ma vollero che io potessi inseguire il mio sogno. E, grazie a loro, ho potuto toccarlo, quel sogno».

Come arrivò all’Empoli?
«Giocavo nella squadra del Castelcisterna, la formazione del mio paese. Ho cominciato in porta, non so perché. Mi ricordo la prima maglietta: era arancione. Allora non c’erano le mute degli sponsor. Si andava dal meno povero del paese per chiedere se comprava undici magliette. I pantaloni, lunghi o corti, li mettevamo noi. Ci deve essere qualche foto in giro, di quelle partite. Un giorno arrivò Silvano Bini che era il plenipotenziario dell’Empoli. Arrivò a casa e convinse i miei. Offrì, come garanzia, il fatto che con me ci sarebbe stato un altro ragazzo del paese, Caccia, che era più grande di me e abitava, con la famiglia, poco lontano da casa nostra. Questo rassicurò, un po’, i miei, e cominciò così il mio viaggio nel calcio».

Andare via a tredici anni, in un luogo sconosciuto, senza genitori. Sembra un romanzo di Dickens.
«Guardi che il distacco, almeno per me, non fu traumatico. Non ho avuto grosse nostalgie perché inseguivo il futuro e volevo fare in modo che arrivasse il prima possibile. Vivevamo in quattro in una stanza, andavamo a studiare, poi agli allenamenti. Non c’era tempo per frignare».

Come andò in Toscana?
«Ho iniziato con i giovanissimi. Poi ho debuttato in serie C a sedici anni e mezzo. L’anno dopo feci sette partite e quattro gol. Ma a diciott’anni cominciò il mio calvario. Mi fratturai il perone e mi ruppi i legamenti. Sei mesi fermo. Come se non bastasse mi venne una miocardite e per un anno non ebbi l’abilitazione per scendere in campo. Fu un periodo durissimo. Mi crollò il mondo. Avevo fatto tanta fatica e ora mi trovavo con un pugno di mosche. Il futuro mi sembrava buio come la notte. Poi la miocardite, come era arrivata, andò via, inspiegabilmente e improvvisamente. E la luce si riaccese».

Chi fu il suo primo allenatore?
«Forse il primo e il più importante fu, all’Empoli, Ettore Donati. Lui mi insegnò il senso della fatica e il valore della costanza. In quell’età si è spugne capaci di apprendere e non si ha la convinzione di sapere già tutto. Molti dei ragazzi di quella nidiata hanno fatto strada, una ragione ci sarà».

In quegli anni lei conosce Spalletti. Un pregio e un difetto.
«Ho giocato con lui a fine carriera e poi fu il mio allenatore nell’anno della miocardite. Lo ricordo perché due giorni dopo l’arrivo del certificato di idoneità lui mi fece giocare in uno spareggio decisivo. Io non avevo disputato una partita vera in tutto l’anno e lui ebbe il coraggio di mettermi in campo. Vincemmo, peraltro. La dote principale di Luciano è la conoscenza e la competenza tecnica unite a una grande costanza nel lavoro. Il difetto è forse che si preoccupa troppo di quello che dicono gli altri».

Poi passò dal Genoa alla Sampdoria, coraggioso…
«Nel campionato a Genova avevo realizzato venti gol ma, essendo in comproprietà tra i rossoblù e l’Empoli, le società dovevano mettersi d’accordo. Invece andarono alle buste e vinse l’Empoli. Che poi mi cedette ai blucerchiati. Era una squadra fortissima. Con me c’erano Mancini, Mihajlovic, Veron… L’allenatore era Eriksson, capace di trasmettere costantemente serenità alla squadra. Quell’anno arrivai anche in Nazionale».

Ecco, mi racconti cosa è, per un ragazzo del Sud, emigrato a tredici anni, poi colpito sul più bello da una frattura e da una malattia del cuore, la notte prima dell’esordio in nazionale.
«Debuttai a Bologna e le assicuro che giocare in Nazionale, almeno per quelli della mia generazione che avevano vissuto i mondiali di Spagna, era una emozione indescrivibile. L’Italia è il massimo per un calciatore. Le dico una cosa e vorrei non le apparisse retorica, perché non lo è. Io quando ero in campo e sentivo l’inno nazionale avevo le gambe che mi tremavano. Ci si sente investiti di una responsabilità più grande, si rappresenta una nazione, si può fare la gioia o la malinconia di milioni di persone. Ancora oggi, quando sento in tv l’inno di Mameli prima delle partite, ho la stessa, particolare, emozione».

La proverà ancora, in campo, da ct della Nazionale?
«Sinceramente non ci ho pensato. Penso che per quel ruolo una dote fondamentale sia l’esperienza. Sa chi vedrei bene sulla panchina azzurra? Claudio Ranieri, uomo di equilibrio che ha visto e vissuto tanto calcio e ha dimostrato, non solo quest’anno, le sue qualità».

Ma se le proponessero quel ruolo?
«Se mi chiamassero ci penserei, certamente. E passerei due notti insonni…».

Torniamo alla sua carriera. Parliamo di quando sbarcò a Roma.
«Comincio dicendo una cosa in modo netto. Eravamo i più forti in quegli anni. Perdemmo due scudetti e ne vincemmo solo uno. Ma li meritavamo tutti. Era una formazione molto forte dal punto di vista tecnico e, poi, ci divertivamo molto in campo. Abbiamo ottenuto poco. Forse hanno pesato la pressione che c’è a Roma, anche le distrazioni che ci sono. E l’eccesso di affetto dei tifosi che può far smarrire l’equilibrio a qualche giocatore».

Lei ebbe dei problemi con Capello, allenatore tanto capace e vincente quanto severo.
«Sì, mi dispiaceva non giocare. Ci soffrivo. E allora si aprirono dei conflitti. Ma se li rivedo ora penso che, per quanto mi riguarda, ci può essere stato un concorso di colpa. Furono giorni poco sereni e mi dispiace che sia accaduto».

Con Totti come si trovò? E cosa pensa del suo futuro?
«Con Francesco all’inizio non avevamo combinato molto, sul piano personale. Come si dice oggi non c’era “feeling”. Ma con il tempo è cresciuto invece un solido rapporto di stima e di amicizia. Siamo cresciuti entrambi. Da calciatore ha fatto cose immense, impensabili. Mi piacerebbe smettesse mentre è all’apice, come è ancora oggi. E quindi finché si diverte, e ora sembra proprio divertirsi, è giusto che continui».

Come ricorda la festa dello scudetto al Circo Massimo?
«Una gioia immensa. Fino all’ultima giornata, con il Parma, avevamo paura di perderlo. Io, come le ho detto, quell’anno soffrivo perché giocavo poco. Quella notte magica la ricordo con quel misto di sensazioni, gioia e malinconia. Poi io, per carattere, gioisco dentro di me, più che all’esterno. Ma se dovessi scegli,ere un evento da rivivere opterei per quella notte. E la vivrei certamente in modo più libero».

E così andò al Fulham. Che esperienza fu?
«Nel campionato successivo allo scudetto giocavo poco e, sinceramente, la mia autostima era sotto il giusto livello. Totti era fuori forma e per due mesi non si espresse all’altezza del suo talento. Ma io non giocavo lo stesso. Allora decisi di andare via. E di andare in Inghilterra. Fu breve ma bellissimo. Un altro modo di concepire le partite, gli allenamenti. Meno pressione mediatica e più divertimento».

Il suo Fulham di ieri ci fa arrivare al Leicester di oggi.
«Che magnifica avventura! Il calcio è meraviglioso perché è imprevedibile, come la vita. Riserva storie fantastiche e quest’anno ne abbiamo viste molte, in molti campionati. Quella della squadra di Ranieri è stata una favola vera. Commuove l’idea che tutto il mondo abbia tifato per una piccola squadra che l’anno scorso rischiava di retrocedere e l’anno prossimo se la vedrà con Ronaldo e Messi».

Come si forma la decisione di smettere di giocare in un campione?
«Per due o tre giorni non ho dormito. Alla Samp, dove ero tornato, volevano ridiscutere il contratto e mi offrirono, come possibilità, quella di cominciare ad allenare. Ci pensai su. Mi rendevo conto che, in campo, tutto quello che era sempre stato facile improvvisamente diventava difficile. Che quel tiro che un tempo sarebbe certamente finito in rete invece usciva fuori di due metri. Capii che la campana era suonata. Non mi ricordo l’ultima partita giocata. So però che giocare mi manca. Ma volevo uscire in modo che si ricordasse quello che avevo fatto e non in un campo di Promozione con il pubblico che ti fischia perché non puoi più fare quello che le persone hanno nella memoria».

Quali sono le doti necessarie in un allenatore?
«Almeno in me, allenare alimenta la voglia di allenare. Da quando ho iniziato, insegnando calcio ai ragazzini, ho coltivato una pignola meticolosità. I bambini meritavano il meglio da me. Con loro, se si sbaglia, si possono fare danni seri. Credo che un buon allenatore debba avere equilibrio, duttilità, competenza. Ed è ormai fondamentale l’aspetto psicologico».

Cosa dice ad una squadra quando inizia il suo lavoro?
«Varia da squadra a squadra e dipende dal momento della carriera. Quando arrivai a Catania, ero agli inizi, non mi misi certo a fare il professore. Ero uno di loro. Poi nel tempo acquisti sicurezza e autorevolezza. E queste contano. Ma credo che l’intelligenza di un tecnico stia anche nel leggere le differenze degli spogliatoi e nell’inventare ogni volta la giusta ricetta per la specifica situazione».

Quale è stata l’esperienza più bella?
«Per me sono tutte belle, perché ho sempre imparato e sempre dato il massimo. Dovrei dirle che la più difficile della mia carriera è quella che sto vivendo ora con la mia Samp. Invece è una esperienza più formativa delle altre. È chiaro che quando vinci dormi meglio. Ma, in verità, impari meno. Sono stato benissimo anche a Firenze, si vive bene in quella città. Abbiamo ottenuto ottimi risultati, superiori alle aspettative. Poi i programmi della dirigenza e mia non coincidevano. Capita. Io dovunque sono stato mi sono trovato bene».

E dove sarà l’anno prossimo?
«Sa come è il nostro mestiere, le sorprese possono arrivare da un momento all’altro. Per ora mi vedo alla Sampdoria».

L’esperienza da allenatore della Roma?
«Breve ma intensa. Fui catapultato e il ricordo, ora, è vago e lontano. Subentrai a Ranieri e la squadra fece dei buoni risultati. Poi la società decise di ingaggiare Luis Enrique. Evidentemente volevano dare un segno di discontinuità rispetto al passato».

Quale è il giocatore più intelligente, tatticamente, che lei abbia allenato?
«Molti. Se mi chiede un nome le dico Borja Valero. Sta sempre dove è giusto stare».

E il difensore più rognoso che ha incontrato?
«Molti, ma in particolare Ferrara e Cannavaro».

Come andrà l’Italia agli Europei?
«Nelle grandi competizioni internazionali l’Italia alla fine c’è sempre. Nell’edizione a cui partecipai vivemmo la beffa della finale con la Francia. Non la dimentico. Io sono fiducioso. Anche perché stimo molto Conte».

Mi è rimasta una curiosità: dopo il suo successo, ora, suo padre finalmente va in vacanza?
«Mia madre sì, mio padre no. La sua vita è il lavoro».

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