Il Romanista – Crediamoci!

Dammi tre punti e non chiedermi niente. E allora va benissimo così, non c’è niente da domandare, se le risposte arrivano dai risultati. Era quello che mancava no? Non era forse finito tutto dopo il derby? Non stavamo a 10 punti da un miraggio, con tutti e due i piedi dentro la crisi e con l’idea di un’altra rivoluzione dietro l’angolo solo per voltare le spalle a quella già in cammino? Dammi tre punti, non chiedermi niente e va più che bene quando l’uomo votato alla rivoluzione riesce a vincere per la quinta volta in questo campionato da piccolo borghese-impiegato.

Uno a zero per cinque fa quindici punti. Matematica dell’essenziale. La Roma di Luis Enrique sa vincere anche solo con un gol. E’ la seconda volta di fila che succede ed è la seconda volta di fila che succede con una rete segnata dopo tre minuti. Dammi tre minuti e tre punti e continua a non chiedermi niente. E’ il decimo gol che la Roma in questo campionato segna nei primi dieci minuti. Tutto questo significa semplicemente una cosa: un buon inizio. Nella partita di ieri così come di questo cicloDopo 28 giornate quanti romanisti avrebbero pensato di ritrovarsi a 4 punti da un posto Champions dopo aver cambiato 11 giocatori (almeno a turno, tutti titolari), staff tecnico e societario, proprietà e semplicemente tutto?

Un inizio – come ieri, con Osvaldo – alla rabona e rock and roll e non dite che è così facile: la Roma ha giocato e vinto bene a Napoli, con l’Inter, meritava di farlo con l’imbattuta Juventus, e non solo con Cesena e Chievo. Genoa per noi non è un’idea come un’altra ma sempre la stessa di calcio: la rivoluzione continua e sembra poter conoscere il suo momento di maturità. Questa Roma sa fare poesia – la conosce per come è stata pensata, immaginata, costruita, la conosce perché è la Roma – adesso sta dimostrando di sopportare anche la quotidianeità, che è il lavoro più duro da sempre per chiunque: Osvaldo a calzettoni calati, De Rossi in scivolata, Gago che fa fallo a palla lontana da scacchista per fermare l’azione. Mettiamola così e mettiamoci questi tre punti in tasca, non solo perché non c’è da chiedere niente, ma perché qualche risposta c’è: Kjaer che continua la risalita, Bojan quando è entrato e pure Marquinho troppo frettolosamente già bocciato. Mancavano anche Totti, Pjanic e Juan, cioè la spina dorsale della squadra.

E poi era il 19 marzo: cioè quel pugno di consonanti di Vavra nello stomaco nella notte con lo Slavia Praga, il derby di Behrami, l’ultima eliminazione dal Liverpool in Champions (la notte di Assuncao sulla fascia destra, mentre indirettamente Luis Enrique ci eliminava dal girone col Barça). Non è poco, e diventa di più se pensi che all’Olimpico contro la Roma il Genoa non ci ha mai vinto e che l’ultima nostra vittoria in campionato di lunedì era roba di 80 anni fa. Il 19 marzo stavolta è stata semplicemente una bella festa del papà. Che possono essere orgogliosi di tifare per una squadra che ricorda con una maglia Abidal mentre dall’altoparlante si tifava per Muamba. L’unica che lo ha fatto in serie A. Non è soltanto un buon inizio, ma qualcosa da insegnare ai figli.

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