“Superga, solo uno schianto”: Agnelli sapeva dello striscione

Il Fatto Quotidiano (A.Giambartolomei) – Di incontri con “esponenti della malavita organizzata” ancora non c’è traccia, ma dalle parti rivelate da ilnapolista.it (sito di tifosi napoletani) del documento con cui la procura della Federcalcio ha deferito la Juventus, il presidente Andrea Agnelli e tre manager, emergono alcune dure contestazioni. Ad esempio, Agnelli sapeva degli striscioni inneggianti alla tragedia di Superga esposti nella curva sud dello Juventus Stadium nel derby Juventus-Torino del 23 febbraio 2014. Li aveva introdotti il security manager Alessandro D’Angelo all’interno di uno zaino per tenere buoni i “Drughi” (guidati da Dino Mocciola) ed era stato ripreso dalle telecamere interne. Eppure, a parte l’aver definito “coglioni” gli ultras, Agnelli non prese decisioni: “Ulteriore conferma del fatto che il presidente non solo fosse consapevole dei rapporti strutturati e delle concessioni fatte in favore dei gruppi del tifo organizzato e di esponenti malavitosi, ma che acconsentiva a tale condotta, e la circostanza che il presidente della società non ha mai denunciato tali condotte alle autorità – statuali e di settore – competenti, né ha mai allontanato dalla compagine sociale i propri collaboratori e dipendenti che attuavano questo sistema”, lo dimostra. Sentito a Roma il 16 febbraio scorso, il presidente del club aveva spiegato che la responsabilità era di Alessandro D’Angelo, ma la procura della Figc non gli ha dato credito. Per quanto riguarda gli incontri con gli ultras, poi, ci sono le parole di D’Angelo sulle visite al presidente nella sede della sua società Lamse e negli spogliatoi del centro sportivo a Vinovo.

La Juventus, assistita dall’ avvocato Luigi Chiappero e Maria Turco, si difende con una lunga memoria di 36 pagine e da alcuni giorni sta affrontando anche una difesa mediatica. Lunedì sera J Channel, la rete tv ufficiale, ha dedicato una trasmissione al caso. In studio l’ avvocato Chiappero ha spiegato i fatti a partire dall’operazione “Alto Piemonte” della Direzione distrettuale antimafia di Torino, da cui è sorto il procedimento della procura federale. L’ avvocato ha voluto distinguere bene i due procedimenti: da una parte quello portato avanti da magistrati antimafia che hanno approfondito i fatti e non hanno rilevato reati commessi dai manager bianconeri; dall’altra quella della Procura federale che, senza strumenti investigativi e sulla base degli atti dell’inchiesta torinese, ha contestato violazioni delle norme sportive e si è spinta oltre, recriminando incontri con “esponenti della malavita organizzata” che non sarebbero stati documentati. È contro queste accuse che il club vuole difendersi. Sostiene la difesa della Juventus che del tête à tête tra Agnelli e Rocco Dominello, ultrà dei “Drughi” accusato di associazione mafiosa e tentato omicidio nel processo penale, non esistono prove, ma soltanto il racconto reso da quest’ultimo. La Juventus, inoltre, vuole che la Commissione parlamentare antimafia tolga il segreto dal verbale dell’audizione del prefetto Pecoraro per verificare il tenore delle sue dichiarazioni. Ciò potrà avvenire soltanto dopo l’ ok della procura Figc.

Intanto ieri alla Corte d’ assise di Milano nel corso del processo per l’ omicidio del procuratore Bruno Caccia, il pentito Massimiliano Ungaro ha affermato che una parte del ricavato dal bagarinaggio dei biglietti della Juve andava a due esponenti della criminalità calabrese a Torino: “Cosimo Crea (condannato per associazione mafiosa, ndr) si occupò del bagarinaggio per la finale Champions del 2015 Juve-Barcellona e coi soldi che fece diede anche 2 mila euro a Placido Barresi”, cognato di Mimmo Belfiore, condannato come mandante dell’omicidio Caccia. Barresi, condannato per vari omicidi, si è dissociato nel 2011 ed è in semi-libertà. “Crea consegnò quel denaro a Barresi perché disse che era una brava persona e per tutto quello che aveva passato – ha aggiunto -. In questa operazione di spartizione di proventi venne coinvolto anche Renato Macrì”, nipote del boss Mario Ursini, condannato nel processo “Minotauro” alle cosche torinesi.

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