Fatico a pensare che questo sia lo sviluppo, perché un ultimatum non ha assolutamente senso. La sintesi, come detto, sarebbe questa: De Rossi ha pochi giorni per darci una risposta! Perché, viene da chiedersi, altrimenti che succede? Un ultimatum presuppone, allo scadere, una ritorsione. E la «ritorsione» della Roma quale potrebbe essere? Potrebbe decidere di venderlo? No, perché sarebbe sempre De Rossi ad avere il pallino in mano, a poter decidere se accettare o no. Per assurdo, la Roma potrebbe decidere di metterlo fuori rosa? Una sciocchezza talmente grossa da non poter essere neppure presa in considerazione. E allora che succederebbe alla fine dell’ultimatum? Assolutamente niente. La Roma potrebbe soltanto sapere ufficialmente di non poter contare più su un giocatore così forte e di non poter far altro che andare sul mercato per cercare un sostituto. E questo, secondo voi, sarebbe un ultimatum? Al massimo sarebbe una richiesta: “Per favore, Daniele, ci fai sapere in tempo utile cosa farai?” Ecco, il senso sarebbe questo e chiamarlo ultimatum non può che creare, eventualmente, un danno alla trattativa. Perché, parliamoci chiaro, è il giocatore a dettare le condizioni e per trattenerlo a Roma è necessario, come d’altronde è nei fatti, farlo sentire importante, importantissimo. Altro che ultimatum.
L’aria che si sente in giro è questa: ma perché De Rossi non accetta la proposta della Roma? Perché non dimostra l’attaccamento che sbandiera e accetta i cinque milioni, cinque milioni e mezzo, sei milioni che gli sono stati offerti? Che differenza c’è, a quei livelli, tra cinque o sei o sette milioni? Innanzitutto la differenza c’è. Perché il De Rossi tifoso può anche pensare di restare a Roma, a parità di condizioni economiche o quasi, pur immaginando che la sua carriera sportiva potrebbe essere meno luminosa rispetto a Manchester o Madrid. E già questa è una bella dimostrazione di attaccamento. Ma il De Rossi professionista non può non chiedersi se sia giusto, oltre a una carriera probabilmente meno luminosa, anche guadagnare due o tre milioni di euro l’anno in meno, che per un lustro fanno dieci o quindici milioni volati via dal conto corrente. A rigor di logica il discorso dovrebbe essere semplice: io accetto di restare alla Roma, guadagnando lo stesso che mi offrono da altre parti, pur sapendo ad esempio che a Manchester o Madrid lotterei per vincere la Champions e qui non so neppure con certezza se l’anno prossimo giocherò la Champions. Non dovrebbe essere già questo un segnale tangibile di attaccamento?
E’ vero, da De Rossi ci si aspetta ancora qualcosa in più. Che resti alla Roma, che rinunci a una possibilità di carriera migliore e anche che guadagni di meno. Perché lui è un tifoso, un tifoso vero, al di sopra di ogni sospetto. E la cosa potrebbe anche andar bene se non ci fosse un però. Il però di un calcio che ormai a tutti i livelli è un business. Il però di una Roma che parla sempre di business e che, anche comprensibilmente, ha dichiarato sin dal primo giorno, nella conferenza stampa di Fenucci e del responsabile dello stadio, che per le partite più importanti (questo è business!) i biglietti sarebbero aumentati notevolmente anche in curva. (…)
E’ evidente che questa storia non possa che avere un finale. Altro che ultimatum, sconti, mozioni: la Roma «dovrà» dare a De Rossi ciò che chiede, ringraziandolo per aver comunque accettato di restare alla Roma, per non commettere un doppio, formidabile, errore. Perdere un punto di riferimento tecnico, essenziale come Totti che all’inizio era stato messo in discussione per poi fare precipitosa macchina indietro, e fare un clamoroso errore finanziario. Già, perché per sostituire De Rossi, se davvero vuole crescere di livello, la Roma non potrebbe che prendere un giocatore dello stesso valore, pagandolo almeno 35-40 milioni e assicurandogli un ingaggio da cinque, sei, sette milioni di euro, quanto guadagnano – forse anche di più – Xavi o Lampard. (…)
Ps: si dice che però il problema della Roma, come di tutti gli altri club, è di abbassare il monte ingaggi. Discorso condivisibile, ma che non ha senso applicare alle stelle. Il monte ingaggi di una squadra si riduce abbassando la media, evitando un trascinamento verso l’alto per cui anche la riserva o il comprimario finiscono per guadagnare un milione e mezzo o due milioni di euro l’anno. I top player, per forza di cose, sfuggono a questa regola. Altrimenti sarebbe stato fin troppo facile per il Milan tagliare Ibra e ridurre il monte ingaggi. Ma, risposta facile facile, secondo voi avrebbe vinto lo scudetto?
Corriere dello Sport – Alessandro Vocalelli