Pjanic: “Alla Juve per vincere. Non sono un traditore, anche Totti ha capito”

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La Repubblica (E.Gamba) – Miralem Pjanic, centrocampista in forza alla Juventus, ha rilasciato una lunga intervista al quotidiano:

Miralem Pjanic, dov’è casa sua? Qual è casa sua?
«Tutte e nessuna. Lo è il Lussemburgo, lo sono state Metz e Lione, mi sono sentito a casa a Roma. La realtà è che non ho una vera e propria radice ma questo non mi disturba. Anche se credo che alla fine tornerò in Lussemburgo: è un posto un po’ noioso, il clima è un po’ così ma ci sono anche tanti vantaggi: il livello dell’istruzione è alto e siccome il calcio interessa poco io lì potrei vivere tranquillo».

Come arrivò da quelle parti?
«Papà, che militava nella serie B jugoslava, voleva portarci via dalla guerra e trovò un contatto con una squadra lussemburghese. Giocare a calcio gli è servito per rinnovare di volta in volta il permesso di soggiorno, però le giornate le passava ad asfaltare le strade e quando la sera tornava casa usciva mamma, che andava a fare i turni in ospedale. È stata una vita dura ma anche fortunata: ho potuto crescere con un pallone tra i piedi e ho incontrato un bravo allenatore, Guy Hellers, che ha cercato di dare un minimo di professionalità a un calcio totalmente amatoriale come quello lussemburghese. A 13 anni mi ha notato il Metz, appena oltre confine, e lì è cominciata la mia storia».

Metz, Lione, Roma, Juventus: se li mette in fila, cosa le viene in mente?
«Un progresso continuo. Ogni cambio è stato un salto di qualità, anche se la mia bacheca è ancora vuota: a Lione avevano vinto sette campionati di fila, ma con me solo secondi posti. Se succedesse anche alla Juve direbbero che porto male…».

Quella con la Roma era una storia finita?
«Era il momento di andare. Ho sempre creduto alle promesse del club, rinnovando il contratto. Continuavano a ripetermi che avrebbero costruito una squadra da scudetto, ma purtroppo in cinque anni non abbiamo vinto niente. Ne ho 26, la carriera non dura in eterno, non potevo più aspettare».

Se un romanista le desse del traditore, avrebbe torto?
«Una persona seria rifletterebbe e capirebbe la mia scelta. La Juve mi voleva da anni. Ne ho parlato anche con Spalletti, con De Rossi. E con Totti».

Cosa le ha detto il capitano?
«Che gli dispiaceva ma mi capiva. Avrebbe preferito che rimanessi in giallorosso ma sapeva che dovevo fare la mia strada. Amerò sempre Roma e la Roma: lì ho condiviso tutto, gioie e dolori. Ma era giusto andarsene. Solo una maglia non potrei mai mettere: quella della Lazio, perché ho giocato nella squadra buona di Roma. La Juve vale l’Inter, il Milan, il Napoli».

Quando ha scelto la Bosnia ha invece ascoltato il cuore?
«In nazionale gioco per fare felice la gente, è forse l’unica scelta di cuore e non di carriera che è possibile fare. Con il Lussemburgo ho frequentato le nazionali giovanili, ma avrei potuto anche scegliere la Francia. Domenech venne a parlarmi, con i Bleus avrei avuto altre prospettive, ma nessun traguardo sarebbe stato all’altezza del mio sogno: fare felice il popolo bosniaco».

Eppure lei in Bosnia non ha mai vissuto.
«Emigrai quando avevo un anno. Tornai che ne avevo sei, a guerra finita, per conoscere nonno e zio: ho ancora negli occhi i carri armati sulla strada di casa. Anche per questo fin da piccolo ho sognato di essere un idolo, un esempio per il mio popolo, e portare la Bosnia a una grande competizione: il Mondiale brasiliano è stato il coronamento di tutto questo. Avessi scelto la Francia chissà quanti ne avrei giocati, magari ne avrei anche vinti, ma non capisco chi sceglie una nazionale per interesse. Quasi tutti noi della nazionale dalla Bosnia ce ne siamo andati da bambini, eppure siamo rimasti legatissimi alle nostre origini: giochiamo per regalare loro un sorriso».

La Bosnia ne ha ancora bisogno?
«La guerra è lontana ma la situazione economica non è buona. Noi possiamo rappresentare un’ora e mezza di parentesi tra i problemi. Costruire e offrire un attimo di gioia vale più di un Mondiale».

Lei è musulmano?
«Sì, osservante ma moderato. E vado d’accordo con chi prega un altro Dio. Allo stesso modo, ho amici serbi e croati. Sono fatto così. Conosco tante culture, tante lingue».

Tipo?
«Il francese è la mia lingua madre insieme al lussemburghese, che è una specie di tedesco anche se i tedeschi non lo capiscono. L’inglese invece l’ho studiato a scuola. L’italiano credo di saperlo abbastanza bene. E il bosniaco lo parlo in famiglia».

In che lingue pensa?
«In francese o in tedesco. Dipende. Se parlo italiano penso in francese, per esempio».

Quando la Juve l’ha corteggiata, ci ha pensato molto?
«Il tempo di capire quanto mi volessero. Ero quello che a loro serviva. Era andata allo stesso modo anche con la Roma: Sabatini e Luis Enrique mi convinsero dimostrandomi quanto tenessero a me».

È vero che l’anno scorso Chiellini, all’inizio di Juve-Roma, le rifilò un calcione guarda caso sul polpaccio che già le faceva male?
«Adesso ci scherziamo sopra. Lui prima di ogni partita mi diceva: “oggi provo a non prenderti”. E invece niente, e io mi arrabbiavo: piano, cavolo, mi fai male. Lui non lo fa apposta, ma è meglio averlo per compagno».

Non è limitante, rimanere nel campionato italiano?
«È vero che in Europa il livello è più alto, ma a quel livello la Juve c’è. Ha storia, esperienza, giocatori. Io credo in questa squadra e questa squadra crede in quello che può raggiungere».

Tre mesi a Torino e ancora non s’è visto il vero Pjanic: giusto?
«L’unica partita che ho sbagliato è stata quella di Palermo. Contro l’Inter non penso di aver fatto così male, anche se è ovvio che se sto più vicino alla porta mi si nota di più. Comunque sono contento di me, le cose verranno con il tempo. Non mi faccio troppi problemi. E voglio imparare, magari anche a giocare davanti alla difesa come dice Allegri. I miei obiettivi sono vincere e diventare un calciatore migliore».

Le manca un gol su punizione?
«Mi manca una punizione: non ne abbiamo ancora avuta una nella mia posizione preferita».

Vista da dentro, la Juve è come sembra da fuori?
«Da fuori sembrava molto tosta, sapevi che era quasi impossibile che perdesse. Qui ho capito perché: costi quel che costi, si vuole vincere, e nient’altro».

Di Roma non le manca davvero nulla?
«Là c’erano più tentazioni. Ma conosco le dinamiche romane e non essendo né scemo né pazzo ho sempre anteposto il mio lavoro a tutto. Poi non c’è niente di male a divertirsi una volta ogni tanto o a uscire a cena, no?».

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