Giuseppe Falcao: “Non ho rapporti con mio padre, ma sto provando a riallacciare anche se è difficile. Questa sera per la Roma è dura”

Corriere dello Sport (W.Veltroni) – Giuseppe Falcao, figlio di Paulo Roberto, è stato intervistato dal Corriere dello Sport ed ha parlato anche della sfida tra Napoli e Roma. Queste le sue parole:

Giuseppe, cosa significa portare il cognome Falcao?
«A Roma, prima di Francesco Totti, Falcao è stato il calciatore più importante nella storia giallorossa. E’, credo, il calciatore straniero più importante ancora oggi. Io faccio l’assicuratore: quando le persone vedono il mio bigliettino da visita, soprattutto la generazione dei quarantenni o cinquantenni, nei loro occhi si rivede un po’ di emozione. Allora Falcao e Maradona spezzarono il monopolio del calcio del nord: Inter, Milan, Juve. Fu una stagione nuova, con tre scudetti vinti in sette anni, finali europee… E due città, non solo due squadre, che ritrovarono orgoglio di sé».

E qual è il tuo primo ricordo di Falcao?
«Calcisticamente io appartengo a una generazione diversa. Nasco con altri punti di riferimento: Giannini e poi Totti. Lui è andato via, è tornato in Brasile, quando io avevo cinque anni, non l’ho mai visto giocare in campo e partite vere e proprie le ho sempre ritrovate a pezzi, in televisione. Di ricordi suoi particolari non ne ho, diretti. L’ho conosciuto su uno schermo. Ho rivisto il Brasile dell’82 e il gol che fece a Zoff».

Che rapporto hai avuto con lui?
«Nessun rapporto allora e, ancora adesso, nessun rapporto. Sto provando a riallacciare un legame ma è difficile. La vita è scorsa per tutti e due e anche per me, a trentasei anni, ormai i punti di riferimento nella vita sono altri. So bene che anche se potrò un giorno riallacciare un rapporto, sarà sempre un rapporto freddo. Con un grande buco dentro. La fase più importanti della vita è l’infanzia e lui durante la mia infanzia non c’era, non c’era mai. Mi basterebbe un rapporto di amicizia, ma ora anche questo mi sembra complicato».

Lui non si è mai informato di te?
«Sicuramente sì. Da quello che mi dicono sì. Però non con me, non con me direttamente».

Tu hai giocato a calcio?
«Da bambino sì».

Mi racconti?
«Ho smesso presto perché comunque, in questa città, portare un nome del genere ti pesa parecchio. Nei tornei di ragazzi sentivo la pressione addosso, tutti si aspettavano che fossi forte come il cognome che portavo. Quando vedo il  glio di Totti che gioca, ripenso a quei momenti. Non è un caso che pochissimi  gli di calciatori, a parte Maldini o Chiesa, siano riusciti a fare come o meglio del padre. Il cognome suscita un’attesa rispetto alla quale ti senti sempre inadeguato».

In che ruolo giocavi tu?
«Centrocampista o difensore».

Hai qualche episodio divertente di quando giocavi?
«Mi ricordo un torneo di calcetto quando avevo diciassette, diciotto anni. Stavo giocando molto bene ma feci un errore e sentii i commenti delle persone fuori che dicevano: “Questo non è buono, di Falcao porta solo il cognome».

Hai conosciuto qualcuno dei suoi compagni di squadra?
«Sì, un po’ tutti. Ho conosciuto Sebino Nela, Bruno Conti, parecchi. Ho buoni rapporti con Bruno Conti».

E che ti hanno detto di Falcao?
«Da quello che so era una persona originale, aveva un carattere particolare, era una “star ” come tutti i calciatori più importanti. Ho sempre visto, da parte degli ex calciatori, un po’ di invidia da questo punto di vista, perché lui doveva essere il cocco di Liedholm. Si diceva che lui potesse fare quello che voleva, perché aveva piena libertà e una totale sintonia con l’allenatore».

Ti manca non aver avuto i suoi racconti?
«No, alla fine la mia famiglia non mi ha mai fatto sentire il peso dell’assenza. Mi manca più che altro quando le persone mi chiedono, è inevitabile, che rapporto ho con lui. Mi fa soffrire che la storia non sia definita, mi manca il passaggio  nale, come se ci fosse un  lo che si è interrotto. “Ma che rapporto hai?”. A qualcuno dici una cosa e a qualcuno ne dici un’altra, per difenderti. Ma la cosa più bella sono i racconti dei tifosi, delle persone che lo hanno visto in campo, che facevano le trasferte su campi di cili, dove la Roma aveva sempre perso. Ma quando c’era lui e quella squadra tornavano a testa alta, sentivano orgoglio. Forse qualcosa che andava al di là del calcio».

Lui era un giocatore straordinario. La cosa fantastica che aveva era come giocava a testa alta, come guardava il gioco…
«Per quello che ho visto lui dava sicurezza e persino un senso di importanza alla squadra. Aveva un atteggiamento anche di strafottenza, mi sembra».

Poi sapeva fare tutto, sapeva difendere, impostare, andava in gol facilmente…
«Infatti in molti mi chiedono a quale giocatore assomigli. Ma non credo che nel calcio di oggi esista un giocatore con le caratteristiche di “universale” che aveva lui. Ora i ruoli sono più de niti e, in un certo senso, limitati».

I grandi giocatori in genere sono irripetibili. Tu hai mai tenuto sue figurine, poster?
«No, lui era un’assenza».

Quando lui è tornato, anni dopo, a Roma e ha fatto quel gesto all’Olimpico di tirare il cuore ai tifosi tu eri allo stadio? Mi racconti quel giorno?
«Sì, ero abbonato in Distinti sud e gli altri spettatori mi conoscevano e mi guardavano. Ero emozionato, credo sia naturale. Fu per tutti un momento particolare. Erano passati forse vent’anni dallo scudetto eppure la gente gli voleva ancora bene, come credo gliene voglia ancora oggi. Mi resi conto che quell’uomo aveva regalato a centinaia di migliaia di persone un sogno e che quell’applauso era un modo per ringraziarlo. Forse non era soltanto calcio, ma qualcosa di più».

Sì, lui e Totti sono oggetto di un amore particolare, come fossero irreali, un mito nel senso pieno del termine… 
«Francesco Totti è  glio di questa città. E’ un campione assoluto ed è stato alla Roma per tutta la carriera, lunga e bella. Falcao è stato solo cinque anni, ha giocato centocinquanta partite, non ottocento come Francesco. Eppure il suo mito è ancora vivo. Forse per quello che la squadra fece e per il salto di mentalità che coincise con il suo arrivo. Appena arrivò a Roma la prima cosa che disse fu: “Vinceremo lo scudetto”. Un extraterrestre, perché la Roma aveva vinto lo scudetto nel ’42. Lo presero per un fanfarone brasiliano. Invece con lui la squadra vinse lo scudetto, davvero».

Mi racconti la tua amicizia con Diego?
«Le nostre madri si sono conosciute perché la loro situazione era molto simile. Andammo a casa loro per conoscerli. Avevo sei anni, li raggiungemmo a Fuorigrotta. E’ un’amicizia che va avanti da tantissimo. Ogni tanto ci perdiamo e poi ci ritroviamo. Siamo lontano  sicamente, ma c’è qualcosa, un  lo, che ci unisce. Abbiamo due caratteri completamente diversi, molto simili a quelli dei nostri genitori. Lui è esuberante, io più pacato. Quando lui ha conosciuto il padre ci siamo sentiti, ne abbiamo parlato. Forse ero l’unico che poteva capire cosa potesse dire essersi riappaci cato con il proprio padre».

Avete mai giocato insieme, tu e Diego?
«Abbiamo giocato insieme i tornei di calcetto. Mia madre aveva casa al Circeo e per stare insieme a noi Cristiana e Diego hanno affittato un appartamento nello stesso nostro villaggio. Facevamo i tornei di calcetto al Circeo. Giocavamo insieme e quando facevamo l’appello la cosa simpatica era che gli avversari vedevano una squadra in cui giocavano, insieme, Falcao e Maradona».

Che sentimento hai nei confronti di Falcao? Se dovessi definirlo con un aggettivo?
«Bella domanda. Non ho sentimenti di odio, perché ormai sono grande. Ma neanche prima, per merito di mia madre che non me lo ha fatto mai odiare. Un po’ di dispiacere, perché comunque non vedo il senso di questa distanza. Ora io ho trentasei anni e lui sessantacinque. Non vedo il senso di proseguire un silenzio così doloroso. Io ormai sono un uomo, ho un lavoro. Spesso temo che queste persone importanti pensino che ci possa essere un discorso economico dietro al cercare di riavvicinarsi, da parte di un  glio, al proprio padre naturale. A me questo aspetto non interessa. Vorrei soltanto chiudere il cerchio, abbracciarlo. Perché tanto so bene, e me ne sono fatto una ragione, che non avremo mai un rapporto normale».

Ti piacerebbe incontrarlo?
«Sì, io sono disponibile anche ad andare in Brasile».

Sei andato in Brasile?
«Sì».

Quando sei andato?
«Andammo con mamma tantissimi anni fa, per l’esame del Dna. Avevo tredici anni. Io ci sto provando ancora, a incontrarlo. Non chiedo altro che capire perché è successo tutto questo. La storia la so dalla parte di mia madre, vorrei il suo punto di vista. Vorrei le sue parole».

Come vedi Napoli-Roma?
«Per noi è dura, è un momento brutto. Però il calcio è strano e ogni partita è una storia particolare. La mia Roma non deve mollare. Non parte sconfitta, perché ha giocatori importanti, però non sta attraversando un buon momento. Il Napoli è una squadra che gioca benissimo, sarà durissima per noi».

Tu speri che l’amicizia possa anche spingere i tifosi a vivere una partita di calcio per quello che deve essere e non per una battaglia, una guerra?
«Speriamo, è difficile perché ci sono interessi che vanno oltre le curve, ci sono situazioni che purtroppo sono successe con la morte terribile di Ciro. Ed è assurdo che non sia possibile per un tifoso del Napoli venire a vedere una partita tranquillamente. Le due trasferte, Roma-Napoli e Napoli-Roma, sono chiuse alla tifoseria ospite. Già questo fa perdere lo spettacolo perché il bello delle partite è anche lo sfottò, il divertimento. A me, tifoso giallorosso, piacerebbe tanto andare a Napoli a vedere la partita serenamente. Napoli è una città bellissima e sarebbe un sogno passeggiare sul lungomare e poi andare allo stadio».

Andrete insieme allo stadio, tu e Diego?
«Sì, dovremmo andare insieme. L’altra volta eravamo insieme. Una volta era uno spettacolo, andare a vedere Roma-Napoli, perché venivano ventimila napoletani. Oggi non è possibile. Il calcio oggi racchiude le frustrazioni delle persone ed è diventato puro business. Neanche io mi diverto a vedere le partite, non c’è la passione di una volta, l’emozione, quando salivi le scalette, di vedere il campo pieno di colori. Oggi le persone sono un po’ lontane da quel tipo di emozioni. Il calcio è come un’abitudine, un amore che continua per abitudine.

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