Ciao, sono Francesco e questo è il Draw My Life. Sono nato a Roma il 27 settembre 1976. Per molti sono il Capitano, per altri il 10. Altri ancora mi chiamano il Cap, che pare un codice postale. Per non sbagliare, alcuni usano nome e cognome. Poi ci sono stati altri soprannomi, ci vorrebbe una vita per ricordarli tutti. Qualcuno insiste ancora con il Pupone, ma io sono Francesco, e non c’è niente di più bello di essere chiamato così, col proprio nome. Ero Francesco quando mamma Fiorella interrompeva la partitella dicendomi che la cena era pronta e papà Enzo mi diceva che ero scarso. Io crescevo, le cose iniziavano ad andare benino ma secondo Lo Sceriffo, il soprannome di mio papà, era più forte mio fratello Riccardo. Io non sapevo se dicesse sul serio ma dopo un po’ ho pensato è che lo faceva per farmi restare coi piedi per terra e farmi andare oltre i miei limiti. In parole povere, Riccà non ti offendere, quello forte ero io. La famiglia l’avete conosciuta e a Porta Metronia, quartiere San Giovanni, ero Francesco e sono rimasto Francesco. Tra le edicole, i bar, i banchi di scuola, per le strade di Roma. Il regalo più grande che mi ha fatto il calcio è stato questo, essere uno di casa nelle case dei romanisti. Da piccolo avevo un sogno ma anche un piano di riserva.
Il sogno si chiamava Roma: la vedevo sfocata quella maglia, ma la vedevo. Il numero 10 sulle spalle, la fascia da capitano, i colori della mia città. Ero bambino, ma vedevo gli altri bambini che avrebbero corso forte dietro me. Lungo il percorso, e poi per sempre, mi avrebbero chiamato Francesco. A proposito di bambini, vi svelo un segreto, quando un piccolo romanista mi chiede un autografo non so mai resistere. Volete sapere il piano di riserva? Sarà che l’odore della benzina mi piaceva, già mi vedevo con la tuta da benzinaio. La storia è andata diversamente, vi porto con me. A 7 anni gioco con la Fortitudo e poi Smit Trastevere e Lodigiani. A 11 anni affronto per la prima volta Nesta, antipasto dei tempi che verranno. Vinciamo noi 2-0 nella finale del torneo Renzini. Quel giorno strinsi la mano ad Alessandro e non smisi mai di farlo, sarebbe diventato un rivale e amico. Se vi chiedono cos’è il fair play, rispondete di Alessandro e Francesco, disposti a tutto per vedere trionfare i propri colori, tranne che a perdere di rispetto.
L’anno successivo ho incrociato gli scarpini col destino. Nel luglio del 1989 ricevo la prima tessera da atleta romanista, un mese dopo mi alleno al Tre Fontane, dove Liedholm aveva impartito lezioni ai campioni di una volta. Inizia la mia trafila nel settore giovanile giallorosso, i giovanissimi, gli allievi e poi la primavera. Fino al 28 marzo 1993 dove Boskov mi spedisce in campo al posto di Rizzitelli. Il mister si volta verso la panchina e disse che toccava al ragazzino. Io non avevo capito che parlasse di me, a ripensarci dopo, se avevi 17 anni, chi altro doveva essere il ragazzino? Potenza dei sogni, in un attimo ero di nuovo bambino e calciatore della Roma insieme. Con le gambe che mi trascinavano per il campo e la testa tra le nuvole. Ora dico, può una favola senza un maestro saggio da prendere per mano e affidargli i poteri? Mago Merlino per me è stato Mazzone, mi ha tenuto alla larga dagli inganno e mi ha protetto dal successo. Crescevo a piccole dosi, tra papà Enzo e Mazzone che tentava di tenermi al riparo dalle luci della ribalta di un ambiente difficile come Roma, capace di abbracciarti così forte da toglierti il respiro. Mi ricordo quando mi beccò il sala stampa a rilasciare intervista. “Ragazzì, vatte a fà la doccia che a questi ce penso io”. Avevo il tempo di maturare, sorretto dalla mia famiglia e da un sogno che si faceva strada. Il 4 settembre 1994 segno il mio primo gol all’Olimpico, segno e porto le mani sul viso, arrossisco e in quel momento sono il ragazzo più felice di tutta Roma.
Dopo l’esperienza con Mazzone andai in difficoltà, e fui vicino a lasciare la Roma. Franco Sensi, a cui devo molto, fece saltare il mio passaggio alla Sampdoria. A poche ore dal trasferimento, giocai un triangolare contro Ajax e Borussia M. Gli avversari andavano giù come birilli, il pallone sembrava spinto dal destino. Inventai gol e giocate, portai lo stadio dalla mia parte, dalla parte del cuore, dalla parte della mia Roma. Poi arrivò Zeman e mi consegnò la fascia e la maglia numero 10. Mi spinse ad accettare nuove sfide con me stesso, in allenamento e in partita. Mi responsabilizzò molto e io mi misi a correre la strada che lui mi aveva tracciato. Il percorso non portava ancora allo scudetto, ma già sfociava nell’azzurro. Ora vi racconto l’unico pezzo della mia vita che non è giallorosso, venite con me in Nazionale.