Draw my life, Totti si racconta: “Che fatica lasciarsi! Il braccio di De Rossi per la fascia è un posto sicuro” – VIDEO

Francesco Totti, attaccante della Roma, con un video pubblicato sulla pagina YouTube della società giallorossa ha ripercorso i passi più importanti della sua carriera calcistica nella rubrica “Draw my life“. Queste le sue parole:

Ciao, sono Francesco e questo è il Draw My Life. Sono nato a Roma il 27 settembre 1976. Per molti sono il Capitano, per altri il 10. Altri ancora mi chiamano il Cap, che pare un codice postale. Per non sbagliare, alcuni usano nome e cognome. Poi ci sono stati altri soprannomi, ci vorrebbe una vita per ricordarli tutti. Qualcuno insiste ancora con il Pupone, ma io sono Francesco, e non c’è niente di più bello di essere chiamato così, col proprio nome. Ero Francesco quando mamma Fiorella interrompeva la partitella dicendomi che la cena era pronta e papà Enzo mi diceva che ero scarso. Io crescevo, le cose iniziavano ad andare benino ma secondo Lo Sceriffo, il soprannome di mio papà, era più forte mio fratello Riccardo. Io non sapevo se dicesse sul serio ma dopo un po’ ho pensato è che lo faceva per farmi restare coi piedi per terra e farmi andare oltre i miei limiti. In parole povere, Riccà non ti offendere, quello forte ero io. La famiglia l’avete conosciuta e a Porta Metronia, quartiere San Giovanni, ero Francesco e sono rimasto Francesco. Tra le edicole, i bar, i banchi di scuola, per le strade di Roma. Il regalo più grande che mi ha fatto il calcio è stato questo, essere uno di casa nelle case dei romanistiDa piccolo avevo un sogno ma anche un piano di riserva.
Il sogno si chiamava Roma: la vedevo sfocata quella maglia, ma la vedevo. Il numero 10 sulle spalle, la fascia da capitano, i colori della mia città. Ero bambino, ma vedevo gli altri bambini che avrebbero corso forte dietro me. Lungo il percorso, e poi per sempre, mi avrebbero chiamato Francesco. A proposito di bambini, vi svelo un segreto, quando un piccolo romanista mi chiede un autografo non so mai resistere. Volete sapere il piano di riserva? Sarà che l’odore della benzina mi piaceva, già mi vedevo con la tuta da benzinaio. La storia è andata diversamente, vi porto con me. A 7 anni gioco con la Fortitudo e poi Smit Trastevere e Lodigiani. A 11 anni affronto per la prima volta Nesta, antipasto dei tempi che verranno. Vinciamo noi 2-0 nella finale del torneo Renzini. Quel giorno strinsi la mano ad Alessandro e non smisi mai di farlo, sarebbe diventato un rivale e amico. Se vi chiedono cos’è il fair play, rispondete di Alessandro e Francesco, disposti a tutto per vedere trionfare i propri colori, tranne che a perdere di rispetto.
L’anno successivo ho incrociato gli scarpini col destino. Nel luglio del 1989 ricevo la prima tessera da atleta romanista, un mese dopo mi alleno al Tre Fontane, dove Liedholm aveva impartito lezioni ai campioni di una volta. Inizia la mia trafila nel settore giovanile giallorosso, i giovanissimi, gli allievi e poi la primavera. Fino al 28 marzo 1993 dove Boskov mi spedisce in campo al posto di Rizzitelli. Il mister si volta verso la panchina e disse che toccava al ragazzino. Io non avevo capito che parlasse di me, a ripensarci dopo, se avevi 17 anni, chi altro doveva essere il ragazzino? Potenza dei sogni, in un attimo ero di nuovo bambino e calciatore della Roma insieme. Con le gambe che mi trascinavano per il campo e la testa tra le nuvole. Ora dico, può una favola senza un maestro saggio da prendere per mano e affidargli i poteri? Mago Merlino per me è stato Mazzone, mi ha tenuto alla larga dagli inganno e mi ha protetto dal successo. Crescevo a piccole dosi, tra papà Enzo e Mazzone che tentava di tenermi al riparo dalle luci della ribalta di un ambiente difficile come Roma, capace di abbracciarti così forte da toglierti il respiro. Mi ricordo quando mi beccò il sala stampa a rilasciare intervista. “Ragazzì, vatte a fà la doccia che a questi ce penso io”. Avevo il tempo di maturare, sorretto dalla mia famiglia e da un sogno che si faceva strada. Il 4 settembre 1994 segno il mio primo gol all’Olimpico, segno e porto le mani sul viso, arrossisco e in quel momento sono il ragazzo più felice di tutta Roma.
Dopo l’esperienza con Mazzone andai in difficoltà, e fui vicino a lasciare la Roma. Franco Sensi, a cui devo molto, fece saltare il mio passaggio alla Sampdoria. A poche ore dal trasferimento, giocai un triangolare contro Ajax e Borussia M. Gli avversari andavano giù come birilli, il pallone sembrava spinto dal destino. Inventai gol e giocate, portai lo stadio dalla mia parte, dalla parte del cuore, dalla parte della mia Roma. Poi arrivò Zeman e mi consegnò la fascia e la maglia numero 10. Mi spinse ad accettare nuove sfide con me stesso, in allenamento e in partita. Mi responsabilizzò molto e io mi misi a correre la strada che lui mi aveva tracciato. Il percorso non portava ancora allo scudetto, ma già sfociava nell’azzurro. Ora vi racconto l’unico pezzo della mia vita che non è giallorosso, venite con me in Nazionale.
La mia prima partita con la maglia azzurra l’ho giocata in un torneo under 16 il 15 settembre del 1991 a Città di Colombo. A livello giovanile ho conquistato un Europero Under 21 in Spagna nell’estate del 1996 e i Giochi del Mediterraneo in Italia nell’estate successiva. Con la Nazionale maggiore ho esordito il 10 ottobre del 1998. Sarebbero stati 10 anni di amicizie sincere e notti magiche: Del Piero, Nesta, Cannavaro, Buffon, Gattuso. Avversari in campionato ma legatissimi sotto la bandiera tricolore. Se mi dite Italia penso a loro e al ct Lippi. Se mi chiedete di racchiudere l’emozioni in due foto sono due rigore: nel primo vedo Van Der Sar che va da una parte e il cucchiaio che si insacca dolce dolce dall’altra parte e poi va il giro del mondo nella semifinale dell’Europeo in Olanda e Belgio dell’estate del 2000. Nel secondo decido un angolo, ci metto la potenza e la precisione che ho e subito dopo sono sommerso da un abbraccio azzurro. Fu un passo fondamentale verso la Coppa del Mondo nell’estate del 2006. La vedo mentre Cannavaro la spinge verso il cielo di Berlino e al Circo Massimo tra me e Daniele che la baciamo davanti alla gente della nostra città. E penso che abbiano ragione quelli che dicono che le emozione che provi durante il percorso sono intense almeno quanto quelle che scopri all’arrivo. In quel mondiale ci sono arrivato per miracolo e tenacia. A tre mesi dal raduno ho subito un gravissimo infortunio alla caviglia e per un attimo ho temuto di perdere quel treno. E’ stato solo un attimo, potevo vincere quella sfida perché tutto mi spingeva in Germania a cominciare da mister Lippi che fu tra i primi a venirmi a trovare e a dirmi che mi avrebbe aspettato. Il periodo della riabilitazione fu durissimo ma non mi sono mai sentito solo. Avevo una città che sognava e compagni impagabili. Ieri come oggi con me c’era Vito: preparatore atletico, amico, fratello, confidente leale che mi ha sempre dato consigli giusti qualche volta anche solo con gli occhi. Uno su cui poter contare. E adesso riavvolgete la frase e rileggetela perché non saprei spiegarvi in maniera diversa cosa è per me l’amicizia. Bene ora sapete come tutto è nato e chi mi ha portato per mano fino al Mondiale del 2006.

Ma tornando indietro c’è una data e un luogo in cui il mio sogno si è intrecciato per sempre con quello di tutti i romanisti: il 17 giugno 2001 di fronte al Parma. Lo stadio Olimpico esplodeva di bandiere, erano ovunque e qua e la qualche tricolore. Nei giorni successivi ne sono spuntate di più, ovunqueA 24 anni ho vinto lo scudetto nella mia città indossando la maglia che ho sempre amato con la fascia al braccio. Si gioca la calcio per vivere almeno un giorno come quello. Roma in quei giorni era un carnevale: era giallorossa dappertutto e lo è rimasta per una settimana intera con i clacson impazziti e palazzi con bandiere giallorosse fino alla festa a Circo Massimo. Per la nostra gente a quel punto eravamo davvero degli eroi. C’è bisogno di dirvi cosa mi ha ricordato a quel punto papà Enzo? Voglio raccontarvi altri legami: quello con la maglia è unico, una sola squadra, una sola maglia. Semplice, no? Ogni anno, quando la stagione era conclusa, come ogni tifosi giallorosso ero impaziente di vedere la nuova maglia. Vabbè sono cose che ci uniscono, come gli album delle figurine Panini e pazienza se nel frattempo siamo diventati grandicelli.  

Poi ci sono state le t-shirt, la prima in un derby e spero di non essere stato troppo sgarbato, l’ultima pure. Oh, con la Grande Bellezza spero che non si sia offeso nessuno. In mezzo c’è quella a cui sono più legato, il 6 unica. Capito Ilary? E voi non fate i tontoloni, ricordatelo ogni tanto alle fidanzatine. Io lo avevo capito che quella fidanzatina sarebbe diventata la donna della mia vita. Dalla t-shirt a oggi sono passati 15 anni e la coppietta ha messo su famiglia: ora abbiamo un tridente di pupi composto da Christian, Chanel e Isabel.. Loro sono il mio cuore e senza di loro alcun successo avrebbe avuto un senso. Devo due parole alle persone con cui ho condiviso la stanza. Ho avuto centinaia di compagni di squadra, ho conosciuto ragazzi di altre nazionalità, ho sentito parlare tantissime lingue ma il linguaggio del campo è uno soltanto. Lo spogliatoio è governato sempre dalla stessa legge, lì dentro non esistono differenze di nessun tipo. Se la vita fosse uno spogliatoio… Io a un certo punto della mia carriera ho avuto la fortuna di condividerlo con un altro fratello di nome Daniele, Daniele è De Rossi. Per me è Daniele, come io sono Francesco. Tante battaglie ci hanno unito, quando la fascia è finita sul suo braccio ho sentito che si trovava in un posto sicuro. Le spalle di Daniele sono un posto sicuro. Amici miei, una mattina di queste vengo a trovarvi a scuola, così approfondiamo il discorso. Fatevi trovare pronti e spero di non avervi annoiato ma c’è una cosa che non riuscirò mai descrivere con le parole: gli scarpini che allacci prima di andare in campo, il rumore dei tacchetti, i tifosi quando indovino la giocata. Poi altri suoni: l’allenamento, la colazione a Trigoria, l’erba a seconda di come l’accarezzi, le trasferte, gli scherzi e i momenti per essere seri e suonare la carica. Che fatica lasciarsi! Proviamo a farlo con una promessa: se ci incontriamo per strada salutiamoci per nome. Continuate a chiamarmi Francesco.

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