l’Espresso – Vi darò uno stadio a stelle e strisce (Versione integrale)

Parlare con Thomas DiBenedetto è come fare gol alla Juventus di Giovanni Trapattoni negli anni Settanta. Il primo presidente statunitense nella storia della serie A, nominato martedì 27 settembre, è tanto catenacciaro all’antica quanto la sua Roma si ispira al futbol bailado stile Barcellona. “Ho sempre cercato di non essere sui giornali. Non ho mai voluto usare la stampa per aiutarmi nei miei affari e sono cresciuto nell’investment banking, dove è meglio non apparire finché l’affare non è concluso”.
Lo stesso vale per l’altra attività del numero uno romanista, l’attività lobbistica internazionale con la Jefferson Waterman International di Washington, una firm a due passi dalla Casa Bianca imbottita di ex militari e agenti della Cia e presieduta da DiBenedetto.
Altri segni caratteristici: cattolico, repubblicano, malato di sport.In gioventù ha praticato il baseball, basket e football americano. Suo padre emigrato dalla Campania nel Massachusetts a 16 anni, ha giocato due anni a livello dilettantistico subito dopo la Seconda guerra mondiale nelle leghe del soccer locale. I figli di Tom DiBenedetto hanno tutti praticato il calcio.
Sua moglie, per il secondo anno consecutivo e per colpa della Roma, ha trascorso un anniversario di matrimonio solitario a Boston. “Il nostro primo appuntamento è stato al Fenway Park per una partita dei Red Sox. Sapeva a che cosa stava andando incontro sposandomi” sorride DiBenedetto durante l’intervista ruilasciataci in esclusiva sulla terrazza del Grand Hotel di via Veneto.
Con buona pace della signora DiBenedetto, anche l’anello più visibile sulle mani del marito non è una fede nuziale ma una di quelle patacche di tre centimetri quadri che in America spettano ai vincitori di campionati sportivi.
In quanto azionista dei Red Sox, DiBenedetto ha in cassaforte i due anelli vinti dai Sox nelle World series di baseball del 2004 e del 2007. Al dito sfoggia quello vinto in terza divisione nel 2008 dalla sua Università, il Trinity College di Hartford, Connecticut “Me l’hanno dato perché li ho aiutati a reclutare sette giocatori del team”. C’è da aspettarsi che, anche con il pallone in giallorosso, il nuovo boss vorrà avere voce in capitolo sul piano tecnico, sportivo come fanno tutti i suoi colleghi italiani. Con qualche comparsa in meno in tv.
Si sarà reso conto che il mantenimento della privacy è una lotta disperata per un proprietario di un club di serie A, in particolare in una piazza come Roma.

“Certo ma credo che l’attenzione debba essere concentrata sulla squadra sui giocatori sull’allenatore e sul management. Io preferisco stare in secondo piano”
Si è mantenuto talmente in secondo piano che durante una trattativa per la Roma alcuni dubitavano della sua esistenza.
 “Ho lavorato dieci anni per tre ditte di prestigio di Wall Street: Morgan Stanley, Salomon brothers e Allen & co. Poi mi sono messo – spiega – in proprio con la Olympic partners e mi sono dedicato all’immobiliare. Ho lanciato altre attività (Junction investors e Boston international group) ma, oltre alla finanza e al real estate, ho sempre desiderato occuparmi di politica estera. Così, a metà degli anni Ottanta, ho passato molto tempo in Unione Sovietica e poi in Russia, aprendo agli investitori occidentali la strada dell’Europa dell’Est. Sedici anni fa ho incominciato a lavorare per la Jwi formata da un gruppo di persone molto stimolanti sotto il profilo intellettuale”.
Più dura in Russia o più dura in Italia?

“Più difficile in Russia. Ma lì come qui è importante avere buoni partner locali”
Come le è venuto in mnete di investire in un paese che alcuni danno sull’orlo del default?

“Le do una risposta che potrebbe non piacerle. I problemi dell’Italia stanno nell’eccesso di burocrazia e nella legislazione del lavoro troppo rigida.Sono stato molto impressionato dagli imprenditori che ho inconrtrato e dalla loro abilità di operare in un contesto simile”.
Chi ha incontrato?

“Preferisco non dirlo. Di sicuro sono sempre più costretti a lavorare fuori dall’Italia. Ultimamente si è aggiunta la crisi del debito. In Europa non avete gli strumenti finanziari. Neanche la Bce li ha, a paragone con la Fed. Il vostro punto di forza sono le condizioni delle famiglie, migliori che in altri paesi. Grazie a questo siete capaci di sostenere la crisi meglio di altri”
Non le sembra paradossale che l’Italia sia a questo punto anche perché è governata da un imprenditore che, per inciso, è il suo collega proprietario del Milan?

«Silvio Berlusconi ha avuto una carriera imprenditoriale di enorme successo ed è stato il premier più longevo al governo. Per ottenere questi risultati ci vuole un individuo di grande talento. Sfortunatamente, adesso è alle prese con altri argomenti. E qui mi fermo».
Fatto sta che gli italiani vanno all’estero e lei è venuto in Italia. Perché?

«C’è un genere di affari qui che sembra capace di sopravvivere a dispetto di quello che accade nel resto del mondo. Mi riferisco al turismo, all’industria del vino, a tutto quello che produce gioia e diverte la gente, come il calcio. Roma è in una posizione unica. La Chiesa cattolica è stata costruita qui e questo è il centro dell’universo per 2 miliardi di persone che considerano un obbligo visitare la Città eterna prima o poi. Le università attirano studenti da ogni nazione, molti dagli Usa, e molti college americani a cominciare dal mio
Trinity hanno sede a Roma. La mia sfida imprenditoriale è trasformare i clienti affascinati dalla città in tifosi di calcio. Per arrivare a questo dobbiamo concentrarci sul marchio e svilupparlo, naturalmente a partire dalle vittorie in campo».

In che condizioni ha trovato la Roma?

«Non abbiamo niente da guadagnare a parlare male di Rosella Sensi. E qualunque cosa io possa dire suonerebbe negativa verso di lei» (in seguito definirà l’eredità “painful”, cioè penosa, ndr.).
A parte la gestione Sensi e considerando la sua esperienza come azionista di minoranza del Liverpool in Premier League inglese, non le sembra che il calcio sia un’attività economica in perdita strutturale?

«Non credo che debba essere necessariamente così. Per ogni club ci può essere un modello di business che funziona, se il proprietario ha con il club lo stesso approccio che ha con la sua azienda».
E il modello della Roma è una squadra vincente, per esempio come il Manchester, con in più i turisti del Colosseo e di San Pietro, che a Manchester non ci sono?

«Di sicuro bisogna incominciare a vincere e il nostro staff, con Luis Enrique, Franco Baldini e Walter Sabatini, è in grado di farlo. Poi, come dicevo, è fondamentale sviluppare il marchio attraverso il Web. Dagli Stati Uniti abbiamo portato a Roma gente con profonde radici italiane per investire sui social media e nel marketing di Internet. Una cosa è avere un’idea, e io ne ho molte. Un’altra cosa è avere le persone per metterla in pratica».
È d’accordo con i suoi colleghi che la rovina economica del calcio sono gli ingaggi dei giocatori?

«Di sicuro sono una percentuale molto alta del bilancio, ma il problema vero è: troppo alti i salari o troppo bassi i ricavi? La priorità dei club italiani è aumentare le entrate perché il mercato dei giocatori è un mercato internazionale e i prezzi li fa il mercato».
A proposito di aumentare i ricavi, a che punto è la trattativa per lo stadio nuovo?

«Con Gianni Alemanno abbiamo avuto una discussione molto propositiva. Il sindaco è totalmente al nostro fianco e adesso stiamo valutando le opzioni sulle diverse aree. Ci sono vari “developers” locali che hanno espresso il loro interesse ad essere coinvolti con l’As Roma nell’operazione. Speriamo di incominciare presto e di essere i prossimi sulla strada che ha aperto la Juventus con grande successo».
Il 2012 sarà l’anno buono?

«Noi speriamo proprio di sì ma bisognerà che ci sia la collaborazione di tutte le forze politiche».
L’Espresso – G. Turano

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