Corriere dello Sport (M.Evangelisti) – Era uno di quei giorni che sembrano enormi e poi se ti volti a guardarli ti chiedi come sia stato possibile farci entrare tutto. Il terzo scudetto della Roma a diciotto anni dal secondo, il primo e ultimo di Totti. Vinto come lo vincono i romanisti, prima una passeggiata, quindi una crisi di panico, una rinascita, un delirio. Alza gli occhi al cielo e guarda ‘sta città, vai tranquillo che tanto Sabrina Ferilli non si spoglia del tutto. D’accordo, magari quel po’ a cui arriva basta e avanza. Scusate se ne parlo, ma c’entra anche questo: quel giorno era il mio compleanno numero 39. I tempi erano sani, non ti chiedevano le analisi del sangue per andare allo stadio. Non scrivevo di calcio all’epoca, quindi potevo tifare senza sentirmi colpevole. Vidi la partita con mio padre. Prima, ultima volta. Mi dice: si va allo stadio? Ma volevo prendere la moto. Proprio per questo, ribatte, così non devo muovermi ore prima. Aveva più di settant’anni, tra mille altre cose mi aveva anche insegnato la noia e la gioia del mestiere. Mi sembrò di restituirgli un minimo di tutto questo quando salì sul sellino alle mie spalle. C’era il Parma tranquillo di classifica, irrequieto negli uomini. Giocavano Buffon, i due Cannavaro, Thuram, persino Marco Di Vaio che infatti segnò, tanto per far sentire tutti romanisti veri, con la partita del secolo ancora ballerina a dieci minuti dalla fine. La Juventus vinceva con l’Atalanta, ed era normale. Per quella Roma vincere non era più normale da un pezzo: la stanchezza della fuga, l’angoscia del traguardo apparentemente vicino come un arco in fondo a un viale di Parigi. L’avevano scampata bella a Torino, recuperando due gol alla Juve grazie un po’ a Montella e a Nakata, molto grazie al peso politico di quella gestione di Franco Sensi che aveva permesso il tesseramento dell’unico giapponese dell’epoca in grado di giocare a pallone. Sapevamo pure che se la Roma avesse impattato con il Parma poi lo spareggio sarebbe stato una formalità. Per la Juventus. Ci avrebbero tenuti per la gola finché non fossimo stramazzati.
Eppure quel 17 giugno 2001 Roma era diversa dal solito e i romanisti anche. La città già dipinta, le braccia che sventolavano fuori dei finestrini delle auto lungo la strada per l’Olimpico. Per una volta nella storia, nessun dubbio e nessuna malinconia esistenziale. Poteva finire in un solo modo. Anche se per venti minuti, anzi diciotto, ballavano gli stomaci dei tifosi quanto ballava il pallone in una mattonella di campo, sempre lì sulla trequarti del Parma, pigro, insonnolito nella calura. E allora Emerson, Candela, palla in mezzo, Totti al volo con il destro simile a un rovescio di McEnroe e gli occhi di chi si è rotto le scatole di aspettare. La profezia si avvera e si può anche piangere. Io me lo concedo. Mio padre no. Ma ci abbracciamo, avvolti da un’emozione che io vivo per la prima volta (nell’83 probabilmente ero distratto) e lui già sente di non poter vivere mai più. Una profezia è cosa seria: Montella e Batistuta a raffica. L’Olimpico si rovescia con troppa fretta sulla pista di atletica. L’arbitro Braschi, che è un uomo saggio, pazienta. Capello, che è un uomo determinato, urla in faccia ai quasi invasori di andare indietro, ma non capite che cosa sta per succedere, non capite che potreste rovinare tutto? Rientrerebbe nelle migliori tradizioni romaniste, ma non accade. Finisce 3-1. Al ritorno, le strade sono sommerse da un milione di persone. Quasi tutte coperte di giallorosso. Pochi tra i turisti fermi agli incroci capiscono. Ma tutti sorridono. Dev’essere successo qualcosa di bello, pensano.