Il Tempo (F.Zunina) – Lungo le ramblas di Barcellona è stato segnalato un ragazzone biondo, alto, tedesco di madre lingua, il quale continua ad aggirarsi smarrito e cammina e cammina, voltando gli occhi al cielo. Quasi impaurito. Si chiama, il giovane crucco, Marc-André ter Stegen ed è il portiere del Barcellona, squadra di calcio campione di molto, anzi di tutto. Il ragazzo non guarda le stelle che ha già visto, in un altro senso, nella sera romana e romanista. Teme che un altro astro cadente lo faccia fesso come è riuscito a Florenzi Alessandro, un piccolo grande calciatore che non ha la genialità di Maradona e di Totti, nemmeno il guizzo fenomenale di Messi o la potenza di Ronaldo. Purtroppo è Florenzi e basta. Ma avanza, come se avanza. In tutti i sensi, le direzioni, le parti del campo.
Se lo incontri per strada non penseresti mai che quel tipetto lì, alto come tutti, pesante come molti, possa essere un calciatore e pure un campione. Perché il significato di campione è questo: è una unità di riferimento, è valore di modello. Mica per i dribbling, gli assist, le acrobazie, i tatuaggi, i cerchietti tra i capelli, il taglio da moicano, la forza bruta. No, Florenzi Alessandro è un bambino di ventiquattro anni che vuole bene al calcio, alla Roma e alla nonna, come tanti bambini di questa città immensa e, infine, piccola quando si raccoglie attorno alla squadra di pallone. E il pallone sta nei piedi di Alessandro e dal cielo cade, come una stella nella notte di San Lorenzo, da mercoledì scorso di San Alessandro, a illuminare il buio e a cacciare la paura dell’uomo nero, anzi blu e granata.
Il gol spettacolare, aggettivo inflazionato che non vuole dire niente anche se cerca di raccontare tutto, quel gol ha fatto il giro del mondo, d’accordo, ma ha soprattutto preso in giro il tedeschino portiere e tutta la comitiva dei campioni che si erano concessi una vacanza romana, senza il fascino di Gregory Peck e Audrey Hepburn, piuttosto di presuntuosi e superbi turisti sicuri di vendere loro la fontana di Trevi a romani e romanisti. E invece li ha risvegliati dall’arroganza il ragazzo dagli occhi vispi e furbi, con quella roba lì che non si può dimenticare ma non è mica l’unica nella sua valigia dei ricordi, quella punizione all’ultimo respiro contro il Grosseto quando giocava con il Crotone, la rovesciata contro il Genoa, una deviazione vincente di testa, sì di capa tosta, coriandoli improvvisi e imprevisti perché lui non è attaccante ma attacca, non è centrocampista ma sa stare al centro del campo, non è difensore ma ha tutte le armi per difendersi e difendere la squadra sua. È universale e l’aggettivo fa venire alla mente l’universo e dall’universo cadono le stelle e ….
Florenzi è perfetto nella sua normalità ma è italiano, questo il limite perché se il cognome avesse altre desinenze e pronunzie, se fosse un van Florenz, un Florenzeau, un Florenzinho, un von Florenz allora il mercato impazzirebbe, gli emiri preparerebbero contanti, assegni e cambiali per prendere il tipetto, lo stesso Barcellona di lui avrebbe bisogno per due motivi: per risolvere il problema dell’esterno basso, una volta chiamato terzino in modo più umano e comprensibile, e soprattutto per evitare nuove cefalee, torcicollo e inquietanti passeggiate lungo le ramblas al ragazzo tedesco biondo che si chiama Marc-André ter Stegen. Ma sceicchi e affini ripongano i loro carnet e portafogli, Alessandro Florenzi vuole bene alla Roma. E alla nonna.