Tommasi: “Credo che la norma delle rose a 25 giocatori non sia legittima, penso che non porti frutti. La storia di Totti è irripetibile”

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Damiano Tommasi, presidente dell’Associazione Italiana Calciatori ed ex giocatore della Roma, è stato intervistato dai microfoni di ReteSport parlando delle nuove norme inserite dalla FIGC. Queste le sue parole:

Sulla rosa a 25 giocatori lei ha detto che così non si va da nessuna parte se non si ristruttura l’organizzazione delle squadre, ad esempio le squadre B come in Inghilterra. C’è una possibilità che si possa arrivare a questo?
“Ho avuto modo di parlarne, come consigliere federale ho anche ricorso a questa norma. Credo che questa norma non sia legittima e penso che non porti i frutti per cui è stata introdotta. Se bisogna avere più giovani in campo, i dati dimostrano che non è così. E’ stato detto che il motivo non è economico ma sportivo, eppure le notizie di questi giorni dicono che è proprio per ridurre i costi. Il calcio di oggi è vissuto da una parte come un evento sportivo che necessita di un progetto sportivo, per altri un’attività di business. Questo va ad essere in contrasto con il progetto sportivo”.

L’impiego degli stranieri nel nostro campionato è arrivato al 60%, qualcosa non funziona più. Tu non ritieni che il sistema sia irredimibile? Tra sport e business non ci sono punti di contatto se non questo.
“Faccio un esempio: in Italia si è lavorato negli ultimi 15 anni per creare un prodotto televisivo e non sportivo. Il prodotto televisivo ha svuotato gli stadi. Eppure televisivamente serve il campo verde ma anche lo stadio pieno. E’ difficile che coincidano. La speranza mia è che anche chi fa business nello sport si accorga che se lo sport perde la sua peculiarità, come il Carpi in Serie A o l’Hellas Verona che 30 anni fa vince il campionato, si perde anche l’anima del prodotto che si sta cercando di vendere. Se si riuscirà a far valere questa cosa la soluzione si troverà, altrimenti si vende un prodotto senza pensare all’anima di questo prodotto”.

Tutto sommato il tifoso medio non è interessato a questo tipo di problematiche, vuole che la sua squadra vinca. Trovi un’opinione pubblica consapevole?
“La storia di Francesco Totti, ad esempio, non è ripetibile. Ha meno successi in bacheca ma è una storia che rimane. Le imprese non sono solo le vittorie. Io credo che il tifoso in questo sia sensibile. Ovviamente poi c’è la necessità di vendere e bisogna vincere, purtroppo viviamo in un mondo schizofrenico. Siamo su un’altalena. Credo che la responsabilità sia di chi gestisce a livello federale, che poi deve presentare una nazionale”.

Mi sembra che si rincorra un risultato attraverso le norme, le regole, non attraverso la formazione.
“Divido il problema in 3 punti: 1) il discorso di andare a pescare all’estero spesso non ha motivi sportivi; dal basso abbiamo due secondi nodi che spiegano cosa ci perdiamo per strada: 2) le scuole calcio sono diventate un’attività commerciale, 3) in Italia nelle categorie più alte dei dilettanti abbiamo cambiato le regole. Questo porta i nostri migliori giovani a fermarsi sul territorio e non a puntare ai professionisti”.

Il discorso della depressione dei calciatori. Si sente spesso parlare dell’uso frequente di farmaci somministrati a calciatori anche non malati. Molti di questi medicinali hanno nelle controindicazioni anche induzione a sindromi depressive. Siete preoccupati?
“Abbiamo prodotto un video relativo alla sensibilizzazione contro l’abuso dei farmaci. Non è un problema solo dello sport. Siamo “obbligati” ad acquistare farmaci, anche la vecchiaia e la stanchezza sono malattie. La ricerca della FifPro fa discutere, ma fa anche molta demagogia perché il calciatore ha tutto e non può essere depresso. Non si può dire di essere tristi, questo crea un lutto interno, alcuni si sfogano con la famiglia, altri non riescono nemmeno a trovarlo. Questo non è un problema solo del calcio, ma di qualsiasi personaggio pubblico. Fa scalpore dire che un calciatore è depresso perché si fanno i paragoni con gli altri che dovrebbero essere depressi. Sono discorsi che vanno contestualizzati ed approfonditi in maniera seria”.

Non può esserci il rischio che si crei perché il calciatore negli anni ha assunto una funzione divistica. Questo non contribuisce a staccare i calciatori dal mondo reale? A volte sono le stesse società che creano attorno ai propri atleti, considerati asset, una sorta di barriera. Prima o poi arriva il momento del conto in cui sconti tutto insieme.
“Si pensa che se uno diventa calciatore professionista diventa qualcuno. Il rischio di sentirsi qualcun altro rispetto a quelli che si è è alto. Sono la famiglia e gli affetti che riescono a trattenerti con i piedi per terra. Chi prima era tutto oggi viene anche dimenticato, il problema quindi non sono solo le società”.

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