Spalletti il martello. Da ElSha a Florenzi la Roma è rinata così

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La Gazzetta dello Sport (A.Pugliese – D.Stoppini) – C’è il fumo, sì. Ma c’è pure l’arrosto dietro quella pelata di Luciano Spalletti, che pensa, dice, urla, rimprovera, accarezza, concede, ringrazia, profetizza. E vince, perché il verbo principale resta quello: nove successi nelle ultime dieci partite per portare la Roma davvero vicina al Paradiso, «perché per noi la Champions è il Paradiso». Lo disse la notte della vittoria con il Carpi, la quarta di fila, quando forse neppure lui immaginava di arrivare a doversi sporcare le mani con la lotta al secondo posto. Lotta quotidiana, come quotidiano è il martellamento tattico e motivazionale che ha portato avanti con giocatori spenti e nascosti dietro l’alibi Rudi Garcia.

MARTELLO… –  Stavano comodi a Trigoria, i calciatori, per usare una terminologia cara a Spalletti. Via gli alibi, è servito il bastone per raddrizzare la baracca. Legnate durissime, che a una lettura superficiale si temeva potessero essere l’anticamera della rottura di un rapporto. E invece erano le fondamenta. Cinque esempi diversi, a sostegno della tesi. Florenzi, il capitano della Roma di oggi, fu più o meno accolto così da Spalletti, la sera di Juventus-Roma: «Ogni tanto si perde in certi atteggiamenti inutili (le proteste, ndr), ma certe cose i campioni non le fanno. Quando smetterà, diventerà un campionissimo». Per il momento, è diventato un uomo derby. Capitolo Salah. Pronti via, dopo l’esordio con il Verona Spalletti lo pizzicò per un gol sbagliato a fronte di un mancato assist: «In certe situazioni è bene essere sicuri, perché sennò si passa la palla e la Roma vince. L’attaccante pensa a fare i gol, io i punti». E ancora: «Ho messo la regola che chi non passa la palla deve pagare la cena al compagno. Salah vada al bancomat… In campo deve essere più curioso». Lo è diventato, perché un mese dopo lo stesso Spalletti ha dedicato all’egiziano una parte di una conferenza pre gara, riempiendolo di elogi. A Dzeko, oltre alle panchine, un giorno disse: «Deve farmi vedere che vuole pregarmi per riavere una maglia». Il giorno dopo, con l’Udinese, Spalletti gliela diede e il bosniaco segnò. Scena simile con Nainggolan nel pre-derby: «Dice che non siamo più deboli di Juve e Napoli? Allora vuol dire che ha fatto poco… deve pedalare di più». La prova del belga contro la Lazio è stata la risposta ideale. L’episodio di El Shaarawy è quasi profetico. In allenamento l’azzurro non prova neppure a chiudere un cross aereo di un compagno. Spalletti urla: «Stephan, te lo segnano anche se lo fai di testa il gol!». E nel derby… gliel’hanno segnato. «Sì, ma deve essere più cattivo, a volte si accontenta», ha tuonato ancora l’allenatore.

…E LAVAGNA – Lui che una risposta l’ha avuta più o meno da tutti. Mancherebbe Totti a completare il quadro, chissà al tecnico non riesca pure questo capolavoro. Nell’attesa, è bene tenere aperto il laboratorio tattico: «Sono stati 3 mesi a Trigoria senza uscire neppure un minuto, neppure all’Asinara». La lettura del derby è stata perfetta, con Nainggolan alto fin sulla linea degli attaccanti per aggredire la Lazio. È solo l’ultima evoluzione di un processo laborioso. «Prima di andare allo Zenit, pensavo che avrei schierato la mie squadre con il 4-2-3-1 fino alla morte. Poi ho scoperto che c’è anche qualcosa di diverso». C’è (stata) la difesa a tre, progetto per il momento messo da parte. C’è la formula con Perotti mezzo trequartista e mezzo centravanti, ad oggi la pista più battuta. C’è la Roma con Dzeko titolare, insieme ad altri tre giocatori offensivi. Oppure il 4-3-3 che solo nella formuletta è uguale a quello di Garcia. È il packaging che inganna. In realtà basta aprire per capire che dentro è tutta un’altra storia. E che i tre mesi all’Asinara non sono stati giorni di vacanza.

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