Roma, mancano presidente e attacco

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Repubblica.it (E.Sisti) – Quella mezz’ora furente di bel calcio che sbatte contro mille stinchi blucerchiati, inganna. A Genova la Roma disastrata e senza identità avrebbe meritato di vincere. Ma non è questo, purtroppo, il punto. O i tre punti. O i zero punti. Non è una questione di classifica ma di identità e di rendimento costante. Non è una questione di “sfiga”, di coincidenze e non è solo colpa dell’autobus che Zenga aveva parcheggiato davanti alla propria porta. La Roma di Garcia è ancorata, più che legata, a due parole cruciali, strettamente connesse fra loro, come in un amplesso promettente ma alla fine rovinoso: presidente e attacco. Il presidente Pallotta non c’è. Sembra un dettaglio?

La Roma sconta un vuoto gestionale assordante, che rimbomba persino tra i fili dell’erba dei campi di Trigoria. La squadra in campo ne è il riflesso, non ci si può far nulla, è una conseguenza quasi automatica: la Roma non ha la continuità che avrebbe se qualcuno la manovrasse, non soltanto dal punto di vista tecnico e tattico (almeno si spera che su questo ci sia copertura…), ma anche dal punto di vista morale, economico, banalmente societario, non ha la continuità  che le consentirebbe di superare le difficoltà (ogni volta è un dramma), di mostrarsi nel tempo (è iniziato il terzo anno di Garcia), di credere nei propri mezzi (anche le buone prestazioni non incidono sulla crescita complessiva).

Il senso del collettivo prospera quando viene esibito, vissuto in condizioni particolari: deve essere protetto da un sistema. La squadra corroborata dalla presenza di una guida ufficiale, in giacca e cravatta, ma andrebbe bene anche il maglione di Marchionne, avrebbe altra convinzione nella buona e nella cattiva sorte. E’ come se una scuola, per quanto arricchita da ottimi insegnanti, non avesse un capo che li stimolasse a fare sempre meglio, perché conviene a tutti. La sensazione, alla Roma, è questa: che non ci sia un futuro, che non si lavori per la stessa causa, che la riuscita di un’impresa non sia un traguardo d’insieme, bensì un passaggio, anche scomodo, verso la fine. Che fatica.

La mano del padrone, la voce del padrone che diventa sostenitore onnipresente, basterebbe anche un “viperetta” di Boston, sono elementi che la Roma non può permettersi e che forse varrebbero più dei milioni spesi sul mercato. Ci vuole più struttura, più cemento, più cuore per tenere in piedi una casa e far capire a tutti la differenza, come ricorda un’immortale canzone di Bacharach, fra una “house” e una “home”. Ecco, la Roma è “a house not a home”. Non è calda, malgrado i colori. Non si sente il lavoro dolce e preoccupato di una famiglia, che anche nel calcio ha un odore tutto suo.

Peccato che Pallotta abbia altro per la testa, che il suo entusiasmo, autentico, si scolorisca negli impegni dell’imprenditore, come se avesse paura di affondare le mani, di carezzare la sua creatura. Se viene a Roma lo fa per seguire, chissà quanto da vicino, gli sviluppi della costruzione dello stadio. E una società ha un solo presidente. Nessun altro che ronzi nell’ambiente ha il diritto o il dovere di fingersi tale. Sono rogne, responsabilità.

L’assenza del manico rende tutto precario, c’è sempre un’aria di cospirazione, da fuori arrivano soltanto minacce o cattiverie. E che diamine. Ci pensi, il presidente. Così, con o senza Garcia, non si va da nessuna parte. Soprattutto se alla parola “presidente” si incastra la parola “attacco”. A causa delle difficoltà provenienti dalle scrivanie, la Roma di Garcia ha subito un’angosciante trasformazione. L’attacco dei grandi nomi, le pulsioni motorie di Gervinho appena arrivato, ricorderete, la qualità di Pjanic, le promesse di Iturbe, la fiducia in Destro, la presenza “unica” di Totti, l’attuale rinnovamento che dovrebbe ruotare intorno a Dzeko e Salah, l’intelligenza che fu di Ljajic e che è di Iago Falque, la speranza che circondava Doumbia e Ibarbo (dissoltasi per la verità in poco più di cinque minuti): ebbene tutto questo non ha prodotto che il 14° attacco italiano del 2015.

Un vero capolavoro rovesciato, in perfetta media retrocessione perché peggio della Roma hanno fatto soltanto Atalanta, Udinese e Chievo, delle attuali partecipanti alla massima divisione. E questa sarebbe la squadra che per due volta è arrivata seconda dietro la Juventus e che lo scorso anno, ad agosto, era considerata la squadra da battere, cascasse il mondo? Nelle ultime 38 partite giocate in campionato solo una volta questa accolita di fenomeni (senza ironia) ha realizzato più di due gol: in Sassuolo-Roma del 29 aprile. E quella sera andò a segno persino Doumbia. I fenomeni sono abbandonati al loro destino, giocano a intermittenza, non credono in se stessi, forse nessuno gli ha più parlato di “progetto”. Ecco perché la splendida e infruttuosa mezz’ora di Genova fa ancora più rabbia. O tristezza.

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