Pallotta, il presidente interventista

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Il Corriere dello Sport (R.Maida) – Lontano dagli occhi, ma non dal cuore. James Pallotta lo aveva premesso e promesso, una volta deciso l’esonero di Garcia: «Siamo tutti in discussione». Anche Sabatini, che infatti accompagnerà coerentemente all’uscita l’allenatore che aveva scelto e difeso a oltranza. I dubbi non erano soltanto del direttore dimissionario. Erano anche del padrone.

RIVOLUZIONE – Stava fisicamente dall’altra parte del mondo, Pallotta, eppure vigilava con fermezza sulle carenze tecniche e sulle intemperanze caratteriali della squadra. Anche (non solo) grazie al braccio destro Alex Zecca, che spesso frequenta Trigoria senza avere una qualifica – e una stanza – da dirigente. Pallotta è rimasto a osservare, fidandosi dei delegati, fino all’inverno 2015. Poi ha messo mano ai problemi intervenendo come un patron italiano vecchio stampo: via i medici, via i preparatori, dentro uno staff tutto nuovo. E poi ancora, saluti all’allenatore a scapito di un contratto fino al 30 giugno 2018 e un commiato meno amichevole di quanto sembri dal direttore sportivo. La rivoluzione americana a Roma. Tabula rasa.

TUTTO NUOVO – E’ interessante osservare il management che sta prendendo forma, rispetto agli albori della proprietà bostoniana. Il 18 agosto 2011, giorno zero del nuovo corso, la Roma si schierava così: presidente Thomas DiBenedetto; amministratore delegato Claudio Fenucci; direttore generale Franco Baldini; direttore sportivo Walter Sabatini; allenatore Luis Enrique; team manager Salvatore Scaglia; responsabile medico Michele Gemignani. Con la rinuncia a Sabatini, saranno cambiate tutte le poltrone. Senza perdere la continuità rappresentata da Mauro Baldissoni, partito come consigliere e poi entrato nell’organigramma come dg: il suo contratto, in scadenza, sta per essere rinnovato.

LEGAME – Non è un caso che nel famoso summit di Miami, dove si faceva la nuova Roma, fossero presenti solo quattro persone: PallottaZecca, Baldissoni e Spalletti. Sarebbe sbagliato scadere nella retorica dell’allenatore-manager, che decide ben oltre i compiti tecnico-tattici, tanto più in una società che si è strutturata attraverso molte specificità professionali. Ma è innegabile che a Spalletti sia stata affidata una missione diversa dal solito. Mai un allenatore della Roma aveva allontanato Totti da un ritiro. Mai De Rossi era stato schierato per un solo minuto di recupero. Più in generale, nella storia del calcio non si ricorda un allenatore che prima conferma i dubbi di un direttore sportivo (conferenza stampa dell’11 febbraio, vigilia di Carpi-Roma) e poi lo rimprovera per aver pubblicizzato la rottura (sabato dopo Roma-Inter).

FIDUCIA – A Trigoria capita perché, in questa fase di delicata transizione, Spalletti ha avuto ampie garanzie dal presidente. Ha potuto impostare la «cultura del lavoro» che meglio considera funzionale alle sue idee. Pallotta lo ascolterà con attenzione anche nelle selezioni per il nuovo direttore sportivo e nella valutazione sui calciatori: non solo negli acquisti che dovranno migliorare la rosa ma anche e soprattutto nelle cessioni, che dipenderanno dalla partecipazione alla Champions League.

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