Mourinho è stato ospite della trasmissione Federico Buffa Talks su Sky. Lo Special One ha rilasciato una lunga intervista ed è stata trasmessa la prima parte. Queste le dichiarazioni dell’allenatore portoghese:

Da dove partiresti per raccontare la tua storia?
“Non partirei. Pensi che sia una storia interessante? La mia storia è la mia vita, l’ho vissuta fino ad oggi e per me è normale, niente di straordinario. Magari da fuori avete un’altra percezione, per me è normale”.

Hai iniziato insegnando ai disabili a Setubal.
“Ero in difficoltà in quel periodo lì, avevo una laurea in Scienze Motorie. Dopo tre anni, ognuno di noi sceglieva il proprio futuro. In quegli anni, sono stato ovviamente nel calcio, nei campi di allenamento e lavoravo con bambini con Sindrome di Down. Non ero all’altezza della dimensione di quel lavoro lì, mi ha salvato il rapporto che ho creato con quei ragazzi lì, avevano tra i 12 e i 17 anni, io ne avevo 24 e mi guardavano come uno di loro. Sono riuscito a fare calcio per loro e creare con quella squadra un rapporto umano. Non sono io diciamo il genio di quella fase, ma un mio professore universitario che mi diceva che io sarei stato allenatore di giocatori che giocano a calcio. Tornando a quel periodo lì con la scuola di educazione speciale, quella è stata la mia salvezza. Sono stati due anni straordinari per me”.

Cosa ti ha lasciato quel periodo?
“Amici, non tutti ma quando torno a Setubal qualcuno trovo. Questo per me è la cosa più importante”.

Cosa ti sei portato dietro da Setubal?
“Setubal (ride, ndr). Sono stato un ragazzo veramente felice, fortunato e felice. Fortunato per gli amici, felice per la famiglia. Tutto quello che io ricordo di Setubal, ogni giorno che sono andato via, però quei 26 anni che sono stato a Setubal tutti i ricordi sono assolutamente fantastici. Per me è un periodo di libertà, una generazione che penso che non dobbiamo avere alcuna invidia delle nuove generazione. Abbiamo vissuto in maniera speciale, a Setubal non sono neanche José quando torno, quando torno sono Zé con una zeta e una è. Vado in giro con giacca, pantalone corto, con una t-shirt bruttissima, la gente mi saluta senza fermarmi, mi chiedono come sto perché è casa mia. Posso avere casa a Londra, a Roma, posso aver girato il mondo ma come famiglia siamo stati fortunati. Abbiamo vissuto a Londra, Madrid, Milano, Roma, abbiamo avuto una vita importante. Setubal, però, è Setubal, non abbiamo la Fontana di Trevi ma abbiamo un’altra fontana che, se bevi dell’acqua da lì, sarai fortunato tutta la vita. E io l’ho bevuta”. 

La vittoria in Champions con il Porto è la tua più grande impresa?
“Sono sempre accusato di essere poco umile, devo dare ragione a chi lo dice. Ho fatto tante imprese, ma vincere la Champions League con il Porto è una super impresa con nove giocatori portoghesi che hanno giocato la finale di Champions League, sette ragazzi un anno prima non avevano nessuna partita in Champions League. Ma ci sono altre imprese perché se ho avuto la fortuna di lavorare con squadre con grandi budget, ho avuto la difficoltà di lavorare in squadre dove vincere è miracolo. Ho vinto con quel Manchester United, ho vinto una coppa e mezza con la Roma, non sono stato capace di vincere due coppe a Roma ma ne ho vinta una e mezza e ho altri sei mesi qui. Quella con il Porto è un’impresa che mi ha aperto le porte del mondo”.

Come entri nella testa dei giocatori per ottenere il massimo?
“Ricordo sempre il mio professore, loro non sono calciatori ma uomini che giocano a calcio. Devi imparare tutto ciò che vuoi su di loro, come interagire e avere feedback continui con loro. Ci sono cose che a livello umano tu devi riuscire ad andare più lontano. Non c’è un segreto per arrivare lì, devi essere te stesso ed essere empatico con la gente che lavora con me. Essere empatico significa essere critico, esigente, aperto, essere onesto. Il giocatore quando lavora con me capisce che sono onesto e dentro l’onestà esiste tutto questo, così il rapporto diventa ottimo e tu ottieni il massimo da ogni giocatore, penso che non sia un segreto”.