L’errore di Wallace e quei difensori che non spazzano più

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La Repubblica (E.Sisti) – Simone Inzaghi ha capito bene cosa volesse fare: «Forse aveva una mezza idea di rientrare col tacco…». Forse. L’errore di Wallace che ha acceso la Roma e condannato la Lazio nel derby non si può guardare neppure e a distanza di ore, ferisce non soltanto i tifosi biancocelesti che l’hanno pagato carissimo, non soltanto i compagni di squadra che di fatto non sono più riusciti a rimettersi in carreggiata, disperdendosi in gesti isolati e vani: ferisce il pallone nella sua globalità e nella sua fragile natura, un pallone, quello moderno, stremato da un calendario fitto come una foresta shakespeariana e afflitto dalla nevrosi come un romanzo di Svevo, un pallone che sconta la malizia di un sistema poeticamente viziato dalle utopie di Guardiola, il cui sogno rimarrà sempre lo stesso: schierare una formazione senza difensori di ruolo (nel Bayern c’è quasi riuscito proponendo una difesa a tre con Lahm, Xavi Martinez e Xabi Alonso).

E così, per un contagio che coinvolge (o travolge) l’alto e il basso, “academy” e tecnici delle prime squadre, educatori dell’infanzia calcistica e anziani allenatori ormai assuefatti a qualunque corbelleria, nessuno insegna più a difendere, non esistono più gli specialisti, mancano i Nesta, i Cannavaro, i Costacurta e, per restare in Brasile, gli Aldair. Per non tornare addrittura più indietro, ai liberi d’arte come Beckenbauer, Krol, Baresi e Di Bartolomei. La messe di difensori brasiliani sparsi per il pianeta ha illuso, è tuttora un prepotente inganno che pesa sui destini di molte squadre che hanno in rosa personaggi lodevoli per l’entusiasmo ma carenti in qualità. Si presentano con piedi discreti, come Thiago Silva e David Luiz, qualcuno garantisce velocità eccessive, come Marquinhos, altri approfittano del trend e affidandosi a un buon procuratore ottengono contratti e conquistano credibilità. Ma non valgono granché, non sanno difendere, non hanno la visione. Sono lo “Zeitgeist” di un ambiente in mano all’iperbole tecnica, al colpo da tramandare ai posteri su youtube. Qualche difensore, per un attimo, si crede Messi. Ma la verità è che non ha neppure la freddezza di capire quand’è il momento di mandarla in tribuna e lasciar perdere le moine. Nel lugubre archivio delle recenti difese della Lazio, con buona pace dell’immenso Nesta, Wallace segue Mauricio e Dias, ma non è, come abbiamo visto, tutta colpa sua. Questo ragazzo brasiliano di 22 anni, Wallace Dos Santos, ha un middle name che dovrebbe spronarlo: Fortuna. Ma i latini insegnavano: fortuna era la classica vox media, ossia significava sorte, in un senso e nell’altro. Ci vuole ben altro in ogni caso per risolvere un problema al limite dell’area, per gestire le continue emergenze di una partita, che sono infinite e che nel 2016 bisogna affrontare al doppio della velocità di un tempo, velocità di testa più che di piedi, specie se dietro hai Dzeko e davanti Strootman, soprattutto se tu sei praticamente fermo e di contro l’olandese vola (come da leggenda).

Non è necessario tornare a Carantini e agli altri “brutti” difensori delle figurine, con i loro volti invecchiati di corsa perché erano i volti del dopoguerra, i volti (e i piedi) di chi aveva conosciuto la fame della ricostruzione: non c’è bisogno di un difensore ruspa per spazzare e non serve una scopa al posto delle scarpe. Basterebbe una maggiore cultura e una più accentuata coscienza di sé e delle circostanze, che è anche con- sapevolezza del mondo che ti gira attorno o di un campo di calcio in una domenica qualunque (diciamo venti metri di diametro di compe- tenza). Ma anche questi elementi, non da poco, coinvolgono il talento e l’addestramento. A volte mancano entrambi e allora ecco che il malcapitato Wallace entra involontariamente nel museo degli eroi alla rovescia del derby romano. Lì incontrerà Negro, Lanna e tutti gli altri heartbreakers delle rispettive fazioni. Con loro si fermerà magari a parlare del più e del meno. Nel frattempo però Strootman ha fatto gol.

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