La passione sfiorita e il senso di precarietà

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La Gazzetta dello Sport (M.Cecchini) – C’è stato un tempo in cui la Rivoluzione Americana non significava solo (meritori) conti in ordine, ma soprattutto passione. Il 25 agosto 2011 (prima uscita ufficiale in casa del nuovo corso) ad assistere al modesto preliminare di Europa League contro lo Slovan Bratislava c’erano all’Olimpico 47.302 spettatori per tifare anche baby come Viviani e Verre. Quattro anni dopo – domenica con l’Atalanta – sugli spalti c’erano 5.587 paganti. Persino tra gli oltre 23.000 abbonati, un quarto abbondante ha scelto di rimanere a casa, e stavolta la Roma (di Champions) schierava gente come Pjanic, Dzeko, De Rossi e Maicon. Impressioni? Che un patrimonio di entusiasmo si stia disperdendo.

In un quadriennio di molte promesse e diversi progressi, infatti, si è creato uno scollamento che ha forse una radice filosofica. Nel 2011 il d.s. Sabatini disse: «Non affezionatevi ai giocatori, ciò che conta è la squadra». È stato di parola e così si sono salutati con rimpianto idoli di pochi mesi (Benatia, Marquinhos, Lamela) per cercarne altri, ma l’utile movimentismo economico che ha portato quasi 60 nuovi giocatori a Trigoria in 5 stagioni, ha alimentato anche un senso di precarietà che fa sentire di passaggio e quindi meno coinvolti nei momenti difficili. Juve e Milan, in questo senso, hanno fatto quasi sempre scelte opposte. A Trigoria invece, dall’orgoglio di una Roma fin troppo autoctona (Totti, De Rossi, Cerci, Curci, Bovo e via elencando), si è arrivati in pochi anni a giocare un derby, l’ultimo, senza neppure un italiano titolare. Intendiamoci, conti alla mano è stato giusto così, ma quando c’è tempesta la prima zattera su cui salire è una: il senso di appartenenza. Proprio quello che adesso sembra mancare per tornare a navigare senza temere naufragi.

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