La Gazzetta dello Sport – Edin Dzeko è uomo da vetrina. E in vetrina s’è messo. E la faccia ci ha messo, quando si è trattato di scegliere il proprio futuro in estate. Quando c’era chi lo ammirava per la straordinaria capacità di far salire la squadra, e lui raccontava che «Sì, lo so, ma io sono stato comprato per segnare, mi pagano per fare gol». Dzeko è pure il simbolo di una Roma che al Camp Nou non è scesa in campo: stralunati compagni, fuori fase pure lui al punto forse di credersi persino in fuorigioco per non riuscire a segnare un gol che magari «non avrebbe cambiato niente», come sostiene Rudi Garcia, e invece avrebbe dato al mondo intero, a quei comuni mortali di cui sopra, almeno la percezione di averci provato.
Serie aperta Dzeko allora a Roma è pure la critica di chi lo rimprovera di non essere ancora abbastanza decisivo. Ma è pure un numero, il bosniaco. È il quattro, lui che da ragazzo sgobbava da centrocampista apprezzerà. Poker di gol consecutivi, almeno a questo è servito quel colpo di testa a tempo scaduto di Barcellona. È servito ad allungare una serie aperta che vale come un simbolo, un’ancora in un mare un bel po’ mosso. Non un’impresa da poco — gli è riuscita solo altre tre volte in carriera —, tra Bayer, Lazio, Bologna e Camp Nou. Non un’impresa da poco, perché arrivata nel pieno di una squadra che non ha ancora capito come si gioca con un centravanti, con questo bosniaco in mezzo all’area. Siamo quasi a dicembre, magari il Natale porterà consigli e novità illuminanti tra i regali di Trigoria. Nell’attesa, resta l’immagine dei gol, nessuno direttamente riconducibile a una giocata pensata per lui, studiata per lui. I gol non lo chiamano, i compagni non lo chiamano. È lui che va a prendersi persino i rigori, lui che rigorista in carriera non è mai stato: ne ha tirati 12, sette segnati e cinque sbagliati, troppi per definirlo implacabile, abbastanza per far capire che pur di segnare è disposto a tutto.