Ceci n’est pas une pipe: l’Atalanta-Roma che non vi hanno raccontato

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Sportpeople.net (G.De Gennaro) – Osservando due mantidi durante l’accoppiamento sarebbe possibile constatare quanto la natura delle cose sia incantevole. Abbracciate su un fianco sembrano danzare gaudenti in un lungo valzer d’amore, ma il limite di un immagine risiede proprio nell’impossibilità di descrivere gli eventi da diversi punti di vista, celando quindi il fatto che la femmina, per ottenere le proteine indispensabili per la riproduzione, stia in realtà divorando letteralmente il compagno. Ecco, le immagini diffuse a mezzo stampa relative ad Atalanta-Roma mi hanno ricordato l’accoppiamento tra i due insetti: mentre il pubblico televisivo assisteva sdegnato agli scontri nel parcheggio antistante il settore ospiti tra alcuni romanisti e le forze dell’ordine, al tempo stesso la loro parzialità nascondeva agli occhi elementi essenziali e punti di vista differenti, grazie ai quali è possibile osservare quel punto di contatto tra ciò che i nostri occhi vedono e ciò che il nostro cuore desidera vedere: la verità. E siccome la bugia fa in tempo a viaggiare per mezzo mondo mentre la verità è ancora in procinto di allacciarsi le scarpe, ho deciso di dare una mano a quest’ultima raccontando quello che è stato omesso misteriosamente nella produzione di questo show, con il fine di rendere ancor più fruibile questo prodotto a livello commerciale. Perché se qualcuno l’avesse dimenticato, la violenza non è affatto una tendenza da debellare, ma una pianta da rinvigorire e plasmare in base alle esigenze dello sceneggiatore.

Se ne era discusso a lungo se consentire ai tifosi romanisti di raggiungere quella terra cullata dalle acque di Brembo e Serio: continuare sulla falsariga del divieto oppure tornare ad aprire la trasferta a distanza di due anni esatti – giorno più, giorno meno. La mia ultima visita sotto le pendici delle Prealpi Orobiche, con il monte Canto Alto a svettare fiero sulla pianura pedemontana, risaliva infatti al novembre del 2014 ed era stata contraddistinta da alcuni disordini al termine della sfida che avevano portato a diversi arresti; oltre ad un ulteriore giro di vite nei confronti della già vessata tifoseria bergamasca. Avevo perciò appreso con soddisfazione la decisione di permettere ai circa duemila sostenitori capitolini di raggiungere la città orobica. Negare un diritto a qualcuno in nome di una sicurezza millantata, celando l’incapacità di agire dietro ad un presunto pericolo, è una perniciosa sconfitta per uno Stato democratico, soprattutto considerando la presenza di strumenti che, come la Tessera del Tifoso, perderebbero il loro senso esistenziale. Prima della partenza qualcuno parlava di “esame di maturità per i tifosi giallorossi”, come se un anno e mezzo di protesta civile contro la decisione di militarizzare lo Stadio Olimpico non fosse una dimostrazione valida, come se un anno e mezzo di trasferte in giro per l’Italia senza creare disordini fossero elementi trascurabili. Altri invece erano convinti fosse una “trappola”: provocarli al fine di rinvenire un pretesto per giustificare la posizione ferma delle Istituzioni di fronte alle istanze di tifosi, AS Roma ed esponenti politici che, da tempo, richiedono un rapporto diametralmente opposto. Ma torniamo alla partita, anzi. Saltiamo a piè pari il racconto della contesa sul campo vinta meritatamente dalla Dea, ahimè, e anche la descrizione di una rivalità sugli spalti condita da una bella fumogenata dei padroni di casa, alcuni striscioni di sfottò degli ospiti e qualche scaramuccia di lieve entità. L’Italia è da secoli il Paese delle lotte di campanile e il livore dei tifosi bergamaschi, e viceversa, non dovrebbe stupire così tanto.

Bergamo, Stadio Atleti Azzurri d’Italia, parcheggio del settore ospiti: ciak in campo, motore, azione!

I pullman privati e i bus diretti alla stazione erano partiti da qualche istante, mentre sulla città erano calate le tenebre e il resto della ciurma attendeva un segnale per poter raggiungere il parcheggio di Via Spino, punto di ritrovo dei tifosi giunti in terra bergamasca con mezzi propri. All’improvviso nel piazzale arrivava qualcosa dall’esterno: un’esplosione, e poi un’altra ancora. Le persone erano scese frettolosamente dalle navette per sincerarsi dell’accaduto. Gli sguardi preoccupati si mischiavano a quelli di occhi nervosi e pronti alla difesa; le frequenze cardiache quasi udibili e l’aria che iniziava a farsi sempre più pesante. Una folla eterogenea fatta di ultras, tifosi accesi, cani sciolti, padri, madri e giovani si riversava così in strada per captare i segnali che arrivano da Viale Giulio Cesare, dove alla fine della partita si erano radunati alcuni tifosi atalantini, oltre alla celere in antisommossa e un’accozzaglia di telecamere. Tutto d’un tratto, come una tempesta in una giornata di sole, alzavo gli occhi al cielo, restando di sasso.

Avete mai visto dei dardi aprirsi sopra le vostre teste per franare a terra in cinque parti pronte a sprigionare tutto il gas contenuto al loro interno? Bene, penso fra me e me, la reazione delle forze dell’ordine al lancio di un paio di bombe carta da parte dei bergamaschi è stata quella di rispondere con dei lacrimogeni ad altezza uomo. Verso i tifosi giallorossi. Evidenti problemi di mira, mi auguro. Dispiace che nessuno dei cronisti presenti ne abbia parlato, forse occupati a preparare una imminente diretta televisiva o forse disinteressati a questa manifestazione di violenza ingiustificata estranea al canovaccio. Qualcuno lacrimava vistosamente, altri accennavano conati di vomito, alcuni correvano all’impazzata presi dal timore, per non parlare delle persone colpite e lievemente ferite. Come un alveare colpito da una bastonata, lo sciame di romanisti si disperdeva senza logica alcuna, tentando di trovare riparo dalla nube tossica. Benché in dotazione da anni, la orto-clorobenziliden-malononitrile è una sostanza capace di danneggiare cuore, polmone e fegato; lo dicono le ricerche scientifiche che hanno classificato il così detto “gas CS” come un’arma chimica da guerra. Ristabilita una parvenza di calma, qualcuno reagiva a questo attacco ingiustificato oltrepassando il confine tra legale e illegale. Una scelta individuale che non dovrebbe mai esser giudicata da chi scrive, in quanto troppo spesso alcune penne si ergono a giudici supremi invocando esecuzioni in pubblica piazza o pene esemplari. Sì, ma tipiche di regimi totalitari. A questo punto dopo aver letto dichiarazioni e articoli di esortazione a diffidare tutti i presenti e vietare le trasferte per l’intero arco della stagione (prontamente smentiti dalla decisione non ancor ufficiale di non punire la tifoseria giallorossa in toto), proporrei di reintrodurre anche la ghigliottina. Tanto, ironia della sorte, un “mostro a tre teste” può vivere anche senza una di esse.

Nonostante la presenza delle telecamere, alle prese con una diretta televisiva degna di un attacco terroristico – tanto da portare una testata giornalistica a confondere Bergamo con Parigi, qualcuno cedeva agli istinti animaleschi cercando di forzare il cancello giallo che delimita il parcheggio. Casualmente però notavo incredulo come le chiavi del suddetto fossero state smarrite, consentendo perciò la sua apertura dall’interno. Chissà cosa sarebbe successo se, invece di lasciarlo aperto, fosse stato chiuso a doppia mandata impedendo qualsiasi contatto e l’acuirsi di una situazione di possibile pericolo. Forse però, con un pizzico di malizia, lo show non sarebbe potuto andare in onda senza quella piccola breccia. L’idea di trasformare un parcheggio in una santabarbara pregna di gas e qualche scalmanato è talmente vincente a livello commerciale che, a questo punto, si potrebbe pensare di farne un format destinato a sbancare il botteghino. O forse già è stato fatto.

Ero appena riuscito a divincolarmi dall’ennesima ondata di persone in fuga, dopo aver urtato violentemente contro un bus a causa di un energumeno spaventato come un elefante in una gabbia per topi, quando, rialzando lo sguardo per trovare sollievo nella fresca brezza di vento, assistevo nuovamente al lancio di quei dardi diabolici. Come immerso nelle sabbie immobili li osservavo avvicinarsi sempre più al mio viso, fino a quando con qualche passo laterale riuscivo ad evitare l’impatto venendo però investito in un batter di ciglio dall’infamia del gas. Lacrime e tosse, tosse e lacrime e imprecazioni. Sinceramente, se non avessi capito con largo anticipo che ero un attore non protagonista dello sceneggiato, avrei anche pensato di reagire. Ma spesso l’efficacia della furbizia è di gran lunga superiore a quella dei sentimenti più viscerali e ancestrali dell’uomo. Il vento aveva appena portato via con sé l’ultima nube tossica e i bus si erano nuovamente riempiti di tifosi, accalcati uno sopra l’altro in barba ad ogni misura di sicurezza. Spesso infatti si trascurano questi aspetti guardando al calcio e al suo seguito, ma il fornire un numero esiguo di navette per un numero così elevato di persone è una decisione profondamente superficiale.

O fate quello che vi diciamo e vi identifichiamo uno ad uno, oppure vi asfaltiamo”. Rimbombano con forza quelle parole mentre osservavo un funzionario delle forze dell’ordine dirigersi verso il primo bus. “Ve lo dico con le buone: la Digos di Roma e il Questore vogliono controllarvi e riprendervi con documento alla mano. Quindi o obbedite oppure dovremo usare la forza”.

Ecco, ogni volta che sento qualcuno invocare una condanna esemplare per tutti, al fine di educarne uno, due o dieci, mi vengono in mente queste parole. Perché se per ogni gesto oltre le righe di un individuo è la collettività a dover pagare, allora di conseguenza sarebbe corretto indirizzare tale ragionamento verso qualunque categoria sociale. Ed essendo questo ragionamento degno di bambini di scuola elementare – e non di senatori, ad esempio – forse, e dico forse, sarebbe giusto ricordarci che le responsabilità sono personali e che ogni spaccato di questa società è una realtà eterogenea da osservare con occhio critico, ma mai inquisitorio erga omnes. Inutile descrivervi lo stato d’animo di oltre quattrocento persone, costrette in una fresca serata novembrina ad attendere di esser ripresi minuziosamente in volto dalle telecamere prima di poter ottenere la carta d’imbarco per poter tornare a casa. Un rompete le righe che ha simboleggiato la chiusura di uno spettacolo televisivo che ha talmente appassionato il pubblico da richiedere a gran voce una pena esemplare. Il prodotto di maggior apprezzamento è proprio quello capace di dar speranza e scatenare un moto di sdegno, di puntare il dito contro un nemico da debellare per illuminare nuovamente un popolo che vive nelle tenebre, sentendosi parte di un mondo fittizio e falsamente idilliaco. Come una bolla che salendo verso il cielo osserva con superbia il mondo sottostante, senza sapere che il suo destino è quello di implodere a contatto con l’atmosfera.

Tornato a Roma non riuscivo a prendere sonno, tanta la delusione di aver assistito ad una mistificazione così profonda della realtà, donando a quella storia delle tinte di cronaca nera. Ed è così che, nel cuore della notte, mi balzava alle mente un dialogo che aveva udito da bambino; il discorso di un uomo pronto a scappare dalla finzione della sua vita eludendo la volontà dello sceneggiatore. Quei ragazzi che andavano incontro alle telecamere assecondando il canovaccio dell’opera mi hanno ricordato le prime scene di quel film. Protagonisti dello spettacolo televisivo mentre io li attendevo lontano dal set come Sylvia aspettava speranzosa il suo Truman.

“Truman, parla ti ascolto”
“Chi sei tu?”
“Sono il creatore di uno show televisivo che dà speranza, gioia ed esalta milioni di persone”
“E io chi sono”
“Tu sei la star!”

Nel bene e nel male, anzi ormai solo nell’ultimo caso. Perché lo spettacolo che i tifosi più appassionati sono capaci di mettere in scena è messo in secondo piano, a favore di una pièce fatta di silenzio e grigiore. Ed allora è più conveniente alimentare il fuoco della rabbia tentando di dare in pasto al pubblico cannibale un piatto succulento.

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