Savelli: “A lezione dalla Signora: come non toppare mai nei momenti decisivi”

Libero (C.Savelli) – Nella testa e nel sangue della Juve vive e scorre lo Scudetto. La differenza con la Roma è tutta lì. Una sfumatura, ma decisiva.Quella della Signora è una grandezza letale perché si manifesta puntuale nei momenti decisivi – di un campionato e di una partita -a prescindere dalla qualità di gioco espressa, dagli avversari, dalle contingenze. È in questi casi che si può definire “grande” una squadra. È in questi casi che la vittoria diventa una naturale conseguenza. La Juve vince perché sa farlo in infiniti modi, accettandosi brutta o pretendendo da se stessa bellezza: è camaleontismo raffinato, non un retaggio da “provinciale”. E poi c’è lo Stadium, che è un fattore assoluto e ormai scontato – 25esima vittoria di fila in casa, eguagliato il record tra l’agosto 2013 e il novembre 2014 -, che inspira le velleità altrui ed espira forza pura per la Juve. Con una spinta così, anche fisicamente vicina, è difficile vacillare, e anche se fosse è poi facile rialzarsi. La qualità è diffusa in entrambe le rose ma quella della Juve è chiaramente superiore. Un distacco suggellato dai curriculum: quelli dei bianconeri sono zeppi di titoli, nei giallorossi invece c’è una tendenza al digiuno con pochi esclusi (Dzeko, Totti, Manolas, De Rossi solo in nazionale).

La mentalità vincente è propria dei bianconeri ed è ciò che trasforma un successo in un altro successo, in un’inerzia senza fine. L’ulteriore forza della Juve è un futuro già vissuto, ne conosce le zone di luce e quelle d’ombra, i passi facili e quelli difficili, così li addomestica, li governa a piacere. La Roma, invece, naviga a vista, in un perenne e stancante inseguimento, senza aver mai scollinato la cima della montagna, per assaporare le emozioni, le sensazioni che si provano a essere sopra tutte le altre. La conferma della differenza tra Juve e Roma è anche storica. Da un lato, quello bianconero, si trova l’abitudine alla vittoria, tale che la sconfitta viene spesso vissuta come un fatto collaterale al lineare racconto. Un’eventualità che movimenta la trama, ma mai abbastanza grande da sabotarla. Di là, invece, la vittoria è attesa, corteggiata, sognata, ma puntualmente sfugge perché all’appuntamento con il destino la Roma si presenta sempre troppo carica di aspettative, quindi contratta (De Rossi nervoso ne è l’emblema). Complici gli infortuni, Spalletti ha lanciato Gerson per sparigliare le carte, arrendendosi all’evidenza del fallito tentativo già all’intervallo. Oltre agli undici titolari c’è un abisso spesso colmato dal tecnico – come contro Lazio e Milan -, ma non stavolta. Allegri, invece, procede nel plasmare la Juve verso il 4-3-1-2 più europeo, che aiuta il gioco e valorizza i musicisti. Paradossalmente, la chiave è Sturaro che garantisce la fisicità prima assente e libera Pjanic sulla trequarti: tutto torna.

Poi c’è Higuain, l’attaccante assoluto che mancava alla Juve. Il Pipita è un serbatoio di punti, una forza d’urto rara che annulla gli avversari (De Rossi stavolta) e issa le squadre in cui gioca. Higuain ha solo di sentirsi rilevante: lo era nel Napoli come lo è nella Juve. Dunque, le notizie giunte dallo Stadium sono due. La prima è che questo campionato esiste ancora perché 7 punti sono una distanza colmabile, soprattutto quando l’attenzione della Juve si sposterà sulla Champions. La seconda, e conseguente, è che forse solo la Juve lo può perdere, soprattutto finché la principale rivale sarà tale solo nelle pretese. Almeno Spalletti, dopo aver sbagliato formazione (anche condizionato dalle tante assenze), può ripartire dagli sprazzi di orgoglio del finale. Quando contava, però, la Signora ha dato la solita lezione.

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