Nuovo stadio, il Comune avverte la Roma: “Il progetto va modificato”

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(M. Cecchini/ A. Catapano) – Una delicata e sfiancante partita a tre. Questo è diventato il dibattito, soprattutto quello privato, intorno al nuovo stadio della Roma. Uno scambio ormai quotidiano di proposte e controproposte tra chi avrebbe voluto sfruttare l’area di Tor di Valle per farne un grande polo sportivo e commerciale, niente di più (Pallotta), chi, invece, tenta di sfruttarla per l’ennesimo blitz edilizio (Parnasi e il consorzio di costruttori che presumibilmente metterà insieme), chi, infine, deve e vuole fare gli interessi della città (il Comune di Roma).

L’equivoco La partita, come è facile capire, si gioca su almeno tre livelli: economico, politico e, ci permettiamo, etico. Le regole del gioco le ha stabilite la legge di stabilità firmata dal Governo Letta a fine 2013, nei tre commi che disciplinano l’impiantistica sportiva. Concepiti dopo un parto travagliato, scritti con l’ambizione di accontentare tutti: cittadini, società sportive, palazzinari. Col risultato, già sotto gli occhi di tutti, che non si riesce a capire se la legge tuteli più la «pubblica utilità» dell’opera o più il suo «equilibrio economico-finanziario». In questo quadro si muove l’iter burocratico del nuovo stadio della Roma, anzi delle opere che di sportivo non avranno nulla — il grande Centro Direzionale che vuole costruire Parnasi — ma che serviranno a garantire il suddetto equilibrio economico di tutta l’operazione. E in questo quadro si inserisce la polemica delle ultime ore lanciata da Legambiente (a proposito, dov’era quando venivano scritti quei tre commi?) sui costi delle infrastrutture «scoperti» (220 milioni) e sulla concessione a Parnasi and Co. di 910mila metri cubi di cemento in più (quelli per il Centro Direzionale) per coprirli. Polemica in cui ieri è dovuto entrare il Comune.

«Così non va» La posizione dell’assessore all’Urbanistica Giovanni Caudo si potrebbe sintetizzare così. Perché dietro le dichiarazioni ufficiali rilasciate a Radio Radio , in un linguaggio istituzionale — «Ad ora la proposta depositata è troppo semplificata, il nostro obiettivo è lavorare perché emerga il suo interesse pubblico» —, c’è una profonda insoddisfazione per la parte del progetto che compete esclusivamente a Parnasi (su quella che compete a Pallotta sono bastate due ore di colloquio venerdì con Mark Pannes), mista all’imbarazzo per il rischio di immagine che assessore e sindaco corrono. L’amministrazione Marino, che come ricordava Caudo «un anno fa ha scongiurato 23.610.000 metri cubi di cementificazione», non può e non vuole passare alla storia per l’ennesima gestione — finché le consentiranno di governare — sotto cui ha proliferato la Roma palazzinara. Ecco perché, al netto del politichese usato ieri, dal Campidoglio filtra una posizione dura: «La proposta, così come ci è stata presentata, dovrà subire delle modifiche se vuole avere il visto di “pubblica utilità”». Ed è facile immaginare che le modifiche richieste per «giustificare quel milione di metri cubi in più» dovranno coinvolgere le opere necessarie alla «connessione del sistema Stadio alle infrastrutture esistenti», soprattutto il potenziamento della rete ferroviaria, che il Comune ritiene insufficiente.

Occhi puntati su… Luca Parnasi, è inevitabile. Quelli del Comune e della Conferenza di servizi — che si riunirà il 31 luglio — sono ben disposti a valutare la possibilità di rendere Tor di Valle anche la sede di alberghi, società e banche (UniCredit, prima creditrice di Parnasi, si è già candidata), ma al tempo stesso rivelano un certo scetticismo sull’ambizione (e l’«attualità») del tentativo. Quelli di James Pallotta, a cui ogni ostacolo o rallentamento del progetto può causare un danno di immagine e, conseguentemente, un problema economico con i suoi partner internazionale. Quelli dei romanisti tutti, che hanno già dovuto ingoiare un’amara verità: lo stadio che, forse, vedranno a Tor di Valle, non sarà della Roma, ma di un consorzio di variopinti imprenditori che glielo daranno in affitto. 

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