Mourinho, anche gli sciamani piangono

Corriere della Sera (F. Roncone) – Fagliela vedere ai tuoi tifosi, questa coppa Conference, Lorenzo Pellegrini. Mettila su nel cielo di Tirana per tutti quei romanisti che sono cresciuti con la struggente filastrocca di Conti Peccenini Rocca, per quelli che in terza elementare fecero festa il giorno che fu acquistato Sperotto, per le cupe domeniche di pioggia in cui all’Olimpico si aspettava l’ingresso di Scarnecchia, e poi per gli adolescenti che persero l’innocenza quando fu annullato quel gol a Turone, e naturalmente per tutti quelli che continuavano ostinati a cantare l’inno dopo i 7-1, per quelli che al Circo Massimo da Antonello Venditti ci andarono lo stesso dopo i rigori persi contro il Liverpool, in quella tremenda notte di sogni, di coppe e di campioni, notte di lacrime e preghiere.

La vita (apparentemente) agra del tifoso romanista viene saldata da serate come questa. Una festa che già qui appare eccessiva, e figuriamoci a Roma, da dove arrivano WhatsApp di straziante felicità. Del tutto irragionevole, stordente, e perciò incomprensibile. Ma capire gli amori degli altri, lo sapete, è sempre complicato. Qui, adesso, tutti pensano che, nove mesi fa, sia stato giusto seguire Mourinho nel suo mondo. Con le sue spiazzanti allucinazioni, la sua umanità così piena di sarcasmo e feroce determinazione, il suo voler vincere per diritto sempre e ovunque, anche a Tirana, in una finale che — per onestà intellettuale — va detto non vale un quarto delle finali cui era abituato.

Lo sguardo si alza dal Mac portatile e scorre sul prato a intercettare proprio lui: che piange. Perché anche gli sciamani sanno piangere. Immagini in dissolvenza. Abraham che vuole cullarsi la coppa. Ibanez balla con Mancini, lui che s’era convinto fosse una coppa per infilarci gli ombrelli. Rui Patricio e Cristante prendono per mano Bove e Zalewski, e tutta la squadra finisce così sotto la curva giallorossa. È una notte caldissima, le lacrime di molti s’appiccicano sulle guance. Ciascuno vive dentro la sua battente, personale gioia. Che poi nell’euforia efferata del calcio succede così: finisci sempre per pensare a qualcuno che non c’è più, che non può festeggiare con te.

Quella madre che insegnava nella scuola dietro campo Testaccio, i nonni alla finestra, e poi il cielo giallorosso, con Agostino e Dino Viola, Albertone e Gigi. Intanto continuano ad arrivare messaggi dallo stadio Olimpico. Dove ci osservano dai mega schermi. Settecento chilometri in un battito.

Dimmi cos’è—canta Venditti — che ci fa sentire vicini anche se siamo lontani. La partita, adesso, appare un dettaglio. Vincerla o perderla, come detto, per i tifosi romanisti sarebbe stata quasi la stessa cosa. Quasi. La familiarità con la sconfitta aveva preparato le pance, non i cuori. Lì tutti speravano di poter finalmente mettere qualcosa di bello nel cappello dei ricordi.

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