Monchi: «Juve, Napoli e Inter da titolo, ma la mia Roma c’è. Ve lo dice un ds con la tuta»

La Gazzetta dello Sport (F.M.Ricci) – L’ambizione, la cura dei rapporti, la vicinanza, il lavoro, la passione. A Siviglia era «Monchi», a Roma è il «Direttore» ma lui non è cambiato, il suo modo di affrontare il mondo è lo stesso. «Ed è il motivo che mi ha spinto a scegliere la Roma. Quando ho comunicato ad amici e familiari che potevo venire qui la prima cosa che mi hanno detto è “Ma sei pazzo?”. No, non lo sono. Ho scelto Roma perché sentivo, e questi primi 6 mesi mi hanno dato ragione, che qui potevo essere Monchi».

Cosa vuol dire?
«Avere un rapporto stretto con lo spogliatoio, per esempio. Io sono un d.s. che ama star vicino a giocatori e tecnico, il contatto aiuta a conoscere le persone. È fondamentale, perché spesso il fallimento di un calciatore è legato alla tristezza o all’insoddisfazione. Se non gli stai vicino non te ne accorgi. Sto tanto nello spogliatoio, non per fare la spia ma perché mi piace. Faccio colazione, vado sul pullman, ceno con la squadra. Ho capito che stavo facendo qualcosa di inusuale quando mi sono messo in tuta,: mi hanno guardato pensando, “Ma questo che fa?”. Lo stesso vale per Di Francesco: entro continuamente nel suo ufficio, non è che ci diamo appuntamento per parlare. Per me questo aspetto non era negoziabile, se non faccio così non sono Monchi. Così sento di essere parte della squadra».

Ha citato l’allenatore…
«Ci sono persone che non riesci mai a inquadrare, e altre che capisci subito. Eusebio fa parte della seconda categoria: è uno che non si nasconde mai. Non mi ha mai venduto cose che non mi poteva dare. Sottolineo tre qualità: la conoscenza della Roma, l’intensità nel lavoro, lo sguardo sempre dritto negli occhi. Se deve dire una cosa negativa a un giocatore la dice, ma sempre nel modo giusto».

Pronti, via. Arriva e deve dire a Totti cosa fare da grande…
«Con lui ho un rapporto che all’inizio non avrei mai immaginato potesse essere così stretto, soprattutto considerando che non sono venuto a regalargli una macchina ma a dirgli “arrivederci e grazie”. Poteva succedere di tutto, è andata benissimo. E ha fatto più lui di me. Dall’1 al 10 alla nostra relazione do un 11. Ho trovato una persona vicina, affettuosa. Dopo 27 anni sulla stessa strada non è facile cambiarla. Il club è stato intelligente nel dargli spazio e tempo necessari. Totti poteva impuntarsi, invece ha capito e accettato».

La Serie A è tanto distante dall’élite europea?
«Rispetto al passato ha perso un po’ di strada su Inghilterra e Spagna, ma la differenza non è tanta e le distanze si stanno accorciando. Nel nostro gruppo di Champions ci sono i campioni d’Inghilterra e l’Atletico, due finali di Champions negli ultimi 4 anni: in testa c’è la Roma. Il Napoli pur perdendo è stato incollato al City. E poi c’è la Juve, che in Europa lotta con le più grandi. A livello di tattica il calcio italiano è all’avanguardia. Magari manca un po’ di qualità ma arriverà e la distanza sarà colmata».

In Champions l’Italia può essere ambiziosa?
«Certo. Ora stanno dominando le inglesi ma per trovare una loro apparizione in finale bisogna andare molto indietro nel tempo, mentre la Juve ne ha giocate due negli ultimi tre anni. Il calcio italiano non deve fustigarsi: è li, vicino alle migliori. E al Mondiale ci andrete».

Chi è la favorita in Champions?
«Dico Barcellona, ma non sono convinto al 100%. Le inglesi sono forti, soprattutto il City, ma non posso dimenticare il Psg».

City e Napoli sono le squadre che giocano meglio in Europa?
«C’è anche il Barcellona. E poi bisogna mettersi d’accordo su cosa s’intende giocare bene. Uno 0-0 può essere bello come un 5-4 e a me una squadra che sa difendersi piace come una che sa attaccare».

È già diventato italiano. Il bilancio di questi 6 mesi?
«Sapevamo che sarebbe stato un anno particolare. Sapevo già dal primo giorno che Spalletti, che ha fatto un gran lavoro, sarebbe andato via. Poi sono partiti giocatori come Salah, Rüdiger e Paredes e si è chiusa la carriera del giocatore più importante della storia. Insomma, tanta gente nuova, compreso un d.s. non italiano. La prospettiva era complicata, ora possiamo essere molto contenti. Però bisogna essere ambiziosi e pretendere di più. Bisogna trovare la stabilità interna, economica e sportiva, per non dover vendere giocatori, e quella esterna: aspirare a essere una squadra d’élite con continuità, in Italia e in Europa. Diciamo che l’Atletico Madrid è un bello specchio. Può essere che si debba continuare a vendere giocatori, ma senza aver paura: come mi è successo a Siviglia le vendite, se ci saranno, dovranno essere fatte per consolidare la posizione, non per minarla. I tifosi ci devono seguire, ma lo faranno solo se otterremo dei risultati: non vanno allo stadio per applaudire un bilancio. Se chiudo con un attivo di 45 milioni ma non ho vinto nulla, il tifoso non è contento. E io sono qui per vincere, non voglio vendere fumo».

Quindi parla di scudetto…
«Se non gli dai la carota l’asino non si muove. Perché non si può parlare di scudetto? Non siamo i favoriti, ma abbiamo il dovere di provarci. Siamo partiti in svantaggio ma pian piano stiamo arrivando al livello di Napoli, Juve e Inter. Siamo in costruzione, ma alla fine dell’opera l’edificio sarà bello».

Non ha citato la Lazio.
«Non posso dare tutti come candidati alla vittoria finale».

E il Milan? Ha fatto investimenti importanti…
«Come la Roma è in costruzione, sarebbe ingiusto appiccicare l’etichetta di favorito a una squadra che si sta facendo, anche se ha speso tanto».

La Roma sta generando un grande entusiasmo.
«Qui si deve scoprire l’esistenza del grigio. Non è possibile che dopo una vittoria il campionato sia già vinto e che dopo la sconfitta col Napoli si sia da quarto posto. È impossibile opporre barriere all’entusiasmo della gente, però dobbiamo essere capaci di rallentare, essere eccessivamente umorali non fa bene. Va trovato il grigio».

Che impressione le fa la Juve?
«Un modello, tanto come club che come squadra. Dopo Calciopoli ha avviato un percorso lungo e preciso: non c’è nessuna casualità nei 6 campionati di fila e nelle due finali di Champions, è il premio a un grande lavoro. Non bisogna aver paura a riconoscere quanto hanno fatto».

Immobile,che lei volle a Siviglia, sta volando mentre in Spagna non combinò nulla…
«E a Dortmund neanche. Ciro ha bisogno di una forma di giocare che non ha trovato né in Germania né in Spagna. A me piaceva ed ero sicuro che avrebbe fatto bene. Un giorno ha chiamato me ed Emery e ci ha detto una cosa bellissima per la sua onestà: “Non posso trasmettere fiducia perché non ne ho”. I giocatori per rendere hanno bisogno di tante cose, dentro e fuori dal campo».

Kolarov è un grande acquisto come rapporto tra prezzo e rendimento. Gli altri acquisti faticano di più a imporsi…
«I bilanci si fanno alla fine. Se lo avessimo fatto dopo i primi 6 o 12 mesi di Dani Alves al Siviglia mi avrebbero buttato nel Guadalquivir. Noi abbiamo preso 8 giocatori: sono contento al 100%? No. Ho fiducia? Sì. L’idea con Di Francesco era quella di rafforzare la rosa, offrirgli delle alternative che magari non aveva. Gli 11 titolari della Roma sono tutti nazionali, non è facile trovar di meglio. Però si può migliorare la concorrenza. Siamo la seconda squadra per rotazioni, e siamo in un’ottima posizione di classifica in Italia e in Europa».

Lei ha detto che se un allenatore le chiede una lampada non gli può portare un tavolino. Con Schick come la mettiamo?
«Volevamo un esterno mancino per sostituire Salah. Abbiamo puntato tutto su Mahrez, che non è venuto perché non lo volevano vendere. Non era una scusa mia, hanno detto no anche al Barcellona. Saltato Mahrez ci siamo detti: “Meglio prendere un esterno mancino a qualsiasi costo, anche se non siamo convinti e abbiamo soluzioni interne, o provare a prendere Schick che non è il profilo esatto che cerchiamo ma è un investimento per il club?”. Rinunciare a Schick per mere questioni tattiche sarebbe stato un errore. Un d.s. deve essere a metà tra tecnico e club».

A gennaio ci riproverete con Mahrez?
«A gennaio non faremo niente. I nostri acquisti devono essere i miglioramenti di Defrel e Under, l’arrivo di Schick, il ritorno di Emerson».

Cambierebbe il mercato?
«Senz’altro. Accorcerei la finestra di gennaio a 15 giorni e chiuderei il mercato estivo molto prima. Se facciamo una statistica sul rendimento dei calciatori acquistati tra il 24 e il 31 di agosto per me il 60-­70% non ha funzionato. Perché non c’è tempo di adattarsi, di ambientarsi, di allenarsi. Io chiuderei il 31 luglio».

Si è dato una spiegazione su tutti questi infortuni?
«Abbiamo un problema ma non dobbiamo aver paura di dirlo, piuttosto dobbiamo trovare una strada per migliorare le cose. Qui abbiamo grandi professionisti e la soluzione non è cambiare le persone, che spesso è la prima tentazione, quanto variare alcuni dettagli. Possiamo spostare l’orario della colazione, ma non dobbiamo cambiare i camerieri».

Se dovesse scegliere un giocatore del campionato italiano, non della Roma, chi prenderebbe?
«Dybala, il giocatore più decisivo che c’è in Serie A».

E quello più importante per la sua squadra, in Europa?
«Leo Messi. È il più determinante nella continuità, partita dopo partita. Cristiano Ronaldo lo è in maniera puntuale, Messi sempre».

Cosa le manca di più?
«La famiglia e gli amici. Però tutto ciò che mi manca me lo dà la Roma. Sono felice». Ora non resta che insegnare alla Roma ad amare il grigio.

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