Chivu: «Inter e Roma da godere»

Cristian Chivu, ex difensore di Roma ed Inter, ha rilasciato una lunga intervista al quotidiano Corriere dello Sport in vista della gara di domani sera a San Siro proprio tra i nerazzurri ed i giallorossi. Queste le sue parole:

Come ha cominciato a giocare a calcio Cristian Chivu?
«Ho avuto un padre giocatore di serie A che mi ha trasmesso questo amore. Nella nostra piccola città rumena lui era un nome e per me era difficile riuscire a eguagliarlo. Il mio desiderio era questo: fare meglio di mio padre nella storia del calcio rumeno».

In Italia i bambini in quel tempo cominciavano a giocare negli oratori. In Romania dove?
«Sulla strada. Lì un bambino è libero di decidere, di imparare, di comprendere la dinamica del gioco del calcio. Diciamo che fino ad una certa età il bambino deve essere libero di scoprire la bellezza e la libertà del calcio. La strada è perfetta, per questo».

Come era la Romania di quegli anni? Lei era piccolo quando è caduto Ceausescu, ricorda qualcosa?
«Era l’autunno dell’89 e ricordo benissimo che andavamo due volte a settimana a giocare organizzati con gli altri bambini. Per il resto del tempo giocavamo per la strada. In quel fine dicembre mio padre mi impedì di andare a fare gli allenamenti perché c’era un caos generale, sulla strada c’era gente, si sparava e quindi rimasi chiuso in casa fino ai primi di gennaio del ’90. Però ero sicuro che giocare era quello che volevo, e ce l’avrei fatta. Trovarsi con un pallone era tutto, non avevamo la televisione in quel periodo, non avevamo altri modi per divertirci. Quindi i nostri giochi, la nostra crescita erano fuori con gli altri bambini».

Chi era il suo mito calcistico quando era bambino?
«Da bambino, come tutti i rumeni, seguivo la Nazionale. Era l’unica squadra che potevamo vedere e per noi Hagi era un sogno che correva».

E dove vedeva queste partite, dato che non aveva la televisione?
«Diciamo che la televisione c’era: trasmetteva due ore al giorno la sera, quando c’era il telegiornale. Tutto era pro Ceausescu, si diceva quanto la Romania fosse bella e ricca. Tutto quello che non era, in verità. Però le partite di calcio della Nazionale le facevano vedere. Anche se si giocavano al pomeriggio. La mia città era al confine con la Serbia. L’Europeo dell’88,quello vinto dall’Olanda con un gol di Van Basten, lo vidi su una collina con la tv attaccata alla batteria della macchina e con una persona che teneva in mano l’antenna. Poetico, no?».

Poi andò in Olanda, ricorda il giorno in cui ha lasciato la Romania?
«L’anno prima di andare in Olanda militavo ancora nella squadra della mia città,in serie A. Mio padre morì il primo aprile del 1997 e quell’estate mi trasferii in un’altra città. Avevo tante squadre che mi volevano, le migliori della Romania. Ma mio padre era nato a Craiova, aveva fatto lì il settore giovanile, e così ho scelto di andare a giocare nell’Universitatea Craiova. Ero un grande tifoso di quella squadra e poi si trovava molto vicina alla mia città, dove mia madre era rimasta da sola. Giocai lì un anno poi l’Ajax mi volle acquistare. Chiamai mia madre e le dissi “Andrò a giocare nell’Ajax”. La prima domanda che mi fece fu : “Ma è una squadra forte?”. L’Ajax due anni prima aveva vinto la Champions. Non conoscevo tanto il campionato olandese però l’Ajax era un nome importante in Europa e per me era un orgoglio avere la possibilità di giocare lì».

Come è stata l’esperienza olandese?
«Ho avuto un po’ di difficoltà nei primi mesi . Io avevo giocato per lo più in strada e mi trovai in una società dove tutto funzionava alla perfezione, dove il settore giovanile era uno dei più importanti d’Europa, del mondo, dove tutto era codificato. I primi mesi fermavano anche l’allenamento in prima squadra, per spiegarmi come dovevo controllare un pallone che mi arrivava. Ero in panchina e il lunedì mi mandavano a giocare con la Primavera, per abituarmi un po’ al calcio olandese. Ho avuto pazienza, sapevo che prima o poi la mia opportunità sarebbe arrivata e che io mi dovevo solo far trovare pronto. E’ accaduto. E da allora non sono mai uscito dalla squadra».

Non solo, ma l’hanno fatta capitano nel 2001 , a ventuno anni…
«Dopo due anni il nuovo allenatore, Koeman, mi ha fatto diventare capitano della squadra. Una grossa responsabilità, che ero pronto ad affrontare . E’ stato un momento di felicità, ho scoperto cosa vuole dire essere orgogliosi di se stessi e la mia autostima è cresciuta in maniera pazzesca. Siamo riusciti addirittura a vincere il campionato, la Coppa e la Supercoppa. Potevamo fare di più, ma eravamo una squadra giovane, inesperta».

Parliamo adesso dell’esperienza a Roma. Lei è stato quattro anni in giallorosso. Come li ricorda?
«Dopo quattro anni in Olanda sentivo che, per seguire la mia crescita come giocatore e come uomo, mi serviva un’altra esperienza. Quell’estate arrivò l’interessamento della Roma con Franco Baldini che era venuto ad Amsterdam a parlare con la società e con me. Fabio Capello mi disse chiaramente la sua volontà di avermi nella squadra. Quindi decisi di andare via. In una grande squadra come la Roma potevamo fare di più, potevamo vincere lo scudetto… Ma sono orgoglioso della scelta che ho fatto. Ho passato quattro anni meravigliosi, là».

Chi è stato l’allenatore più importante della sua vita?
«Mio padre. Mio padre, perché abbiamo lavorato poco insieme, ma mi ha dato dei consigli importanti non per quello che dovevo fare in campo, ma per quello che doveva essere il mio atteggiamento fuori».

Che coppia costituiva con Samuel?
«Siamo diventati amici in poco tempo. A Roma abbiamo giocato insieme un anno, poi lui andò al Real Madrid. Dicevamo: “Le nostre carriere le finiremo insieme nel Boca Juniors”. Non fu così. Poi lo ritrovai nell’Inter a Milano. Lui era molto bravo, un difensore puro, vero, molto bravo a leggere le situazioni e nel duello con l’attaccante. Ci completavamo, perché quando serviva la sua irruenza, la sua forza fisica lui era presente, quando serviva leggere e anticipare le azioni altrui ero presente io».

Poi passa all’Inter…
«Pur avendo vinto con la Roma una Coppa Italia, nella mia testa ho sempre pensato “Prima di andarmene via da un Paese, non solo da una squadra, devo vincere il campionato”. Quell’estate fu molto dura:la Roma aveva rimandato per un anno l’incontro per rinnovare il contratto. Incontro che non arrivò mai, non so per quale motivo. Ma era chiaro che la società non mi voleva più. Comunicai, dopo la finale di coppa, che c’era un interessamento dell’Inter. Durante l’estate la Roma mi disse di andare al Real Madrid e ci fu il casino che ho dovuto sopportare, per due settimane. Alla fine ci fu l’accordo tra l’Inter e la Roma e passai all’Inter. Sereno non lo ero, ma dopo pochi giorni a Milano capii che era tutto passato. Furono anni belli, perché il primo riuscimmo a vincere il campionato, all’ultima giornata.Proprio la Roma ci era stata molto vicina. Il mio sogno si era avverato. Ero riuscito a vincere il campionato in Italia».

Ha mai capito perché la Roma non le rinnovò il contratto?
«No. Ho qualche idea. Diciamo che non ho mai avuto la fama di avere un fisico molto importante. Ho avuto molti problemi, durante la mia carriera, dovuti non so a cosa. Ma la mia forza era che riuscivo sempre a rialzarmi, pur avendo subito degli infortuni importanti. Penso che la Roma non si fidasse di quello che io potevo dare, avevo già ventisette anni».

Sì, a Roma la chiamavano Swarovski o Cristal Chivu… Poi ha avuto un incidente molto serio alla testa in uno scontro con Pellissier…
«E’ un incidente che mi ha cambiato. Mentre ero in sala preoperatoria ho capito che le cose potevano finire molto male. Quando sei vicino al peggio cambi, cambi il tuo modo di essere, il tuo modo di pensare, di vedere la vita. Allora avevamo una figlia piccolina, la mia più grande paura era non vederla più. Non pensavo al calcio, pensavo alla famiglia, pensavo al fatto che avrei rischiato di non essere presente nella sua vita e che sarei potuto uscire dalla sala operatoria invalido per sempre. Pensieri tremendi. Ma grazie a Dio, grazie ai medici, sono riuscito a tornare come prima e sono riuscito anche a ritornare a giocare a calcio».

Due mesi dopo era in campo. Come è stato il momento in cui è tornato, come lo ricorda?
«Ci sono stati due fattori importanti, in quel periodo. La tranquillità che la società, i compagni mi hanno dato e l’altro è stato Mourinho. La persona, l’uomo Mourinho mi è stato molto vicino e mi ha incoraggiato, in quel periodo di riabilitazione. Quelle prime due settimane le ho passate tranquillo a casa. Ricevevo chiamate, tutti mi chiedevano “come stai?”. Anche l’allenatore mi chiamava tutte le sere. Fino a fine gennaio quando si doveva fare la lista per la Champions. Mourinho allora mi disse “Quando torni?”. Non mi chiedeva più come stai, ma “Quando torni”? Io sapevo che i tempi erano abbastanza lunghi, si parlava di sei, sette mesi. Gli dissi “ Devo stare un mese fermo. Dopo, se tutto va bene, comincio a correre e dopo altri due mesi riesco ad allenarmi con la squadra. A marzo gioco”. Non avevo la certezza che questo potesse accadere. Ma l’ho detto. Dopo un mese mi hanno dato l’ok per correre».

E’ stata dura la riabilitazione?
«Ho avuto molta difficoltà a correre, all’inizio, perché mi mancavano i punti di riferimento e nei primi giri di campo cadevo a terra. Ero ridotto così. Ma con la forza di volontà, con la rabbia di reagire, dopo due mesi e mezzo ho giocato. L’accordo con Mourinho era che, se tutto fosse andato bene, nella prima partita, mi avrebbe fatto entrare alla fine. Cinque o dieci minuti per tornare ad essere un calciatore professionista. Lui di solito la squadra la annunciava la sera prima della partita, ma quel sabato non disse nulla. Annunciò la formazione un paio d’ore prima della partita. Lesse il mio nome come titolare. Quando lo sentii ho provato un’emozione indescrivibile. Andò tutto bene. Ero molto contento di giocare di nuovo e di essere importante per la mia squadra».

Giocava con un copricapo, come Cech…
«Appena colpivo di testa, soprattutto i cross che arrivavano molto forti, mi si addormentava tutta la parte sinistra. Nella seconda partita giocata contro la Roma entrai gli ultimi venti minuti. La prima palla che colpii di testa mi paralizzò tutta la parte sinistra, dalla testa fino ai piedi. Mentre si giocava andai verso la panchina dove il medico, che mi teneva molto d’occhio, mi passò al telefono il neurochirurgo Giovanni Brogi, il quale mi spiegò che queste cose accadevano perché delle cellule nervose a livello centrale si svegliavano e mi davano questa scossa in tutto il corpo. Non era facile da accettare. Ogni volta che colpivo di testa mi si addormentava tutta la parte sinistra. Così è stato fino al termine della carriera. Diciamo che con tutto quello che mi poteva accadere sono stato fortunato. Mi è rimasta solo la perdita di sensibilità nella mano sinistra, che ho ancora. Ma ormai mi sono abituato a convivere con questo minimo problema».

Lei ha giocato sia con Totti che con Zanetti. Quali sono le somiglianze e le differenze tra i due?
«Per quello che rappresentano e hanno rappresentato per la loro squadra ci sono molte similitudini. Erano giocatori simbolo, che rappresentavano la storia e le radici della società. Come giocatori erano diversi: Francesco ha più qualità, Javier era un difensore e anche un centrocampista, poteva giocare più ruoli ma con meno qualità rispetto a Francesco. Rimarranno per sempre nei cuori dei tifosi. Non solo di quelli della loro squadra, ma di tutte le persone che amano davvero il calcio».

Come vede Roma-Inter di domenica?
«Una partita aperta, che sarà sicuramente divertente. Anche se tutte e due le squadre hanno finito l’anno un po’ sotto le aspettative. Le difficoltà erano fisiologiche, visti i cambiamenti fatti, i nuovi allenatori che sono arrivati. In questi casi non è mai facile avere continuità. Tutte e due hanno avuto un inizio stagione sopra le aspettative. Ora penso che, come obiettivo, tutte e due abbiano la partecipazione in Champions. Per lo scudetto Juve e Napoli sono le favorite».

C’è oggi un difensore che le sembra al vostro livello?
«Ci sono difensori forti, che devono avere però la convinzione di essere forti. A me piace Skriniar, ha avuto una crescita notevole da quando è arrivato all’Inter. Giocare in squadre importanti, accanto a giocatori importanti fa esprimere qualcosa in più. Lui è un difensore completo, bravo nell’uno contro uno, bravo nel leggere il gioco. Quello che secondo me in questo momento manca ai difensori è il coraggio di andare a giocarsi l’uno contro uno, manca il coraggio di andare a fare il duello. Ormai, soprattutto in Italia, siamo abituati tutti ad avere raddoppi, ad avere coperture, ad avere mille cose ma ci siamo dimenticati che difendere è, in primo luogo, andare a fare l’uno contro uno…».

Chi è l’attaccante più forte che lei ha incontrato durante la sua carriera?
«Ce ne sono tanti. Direi quello che mi ha stupito di più, per quello che riusciva a fare in campo, era Ronaldo. Ronaldo il brasiliano. Era un giocatore completo, sia dal punto di vista fisico che tecnico-tattico. Diciamo che a me davano fastidio quelli intelligenti, quelli che provavano a fare scelte inaspettate, che anticipavano quello che il difensore stava per fare. Metterei nella lista anche Shevchenko, Kluivert, Henry».

Non ha voglia di tornare sul campo ad allenare?
«A dicembre ho finito il corso a Coverciano, che mi permetterà di fare l’allenatore in seconda nella serie A e il primo allenatore a livello giovanile, fino alla serie B. Se sono entrato a Coverciano non con il desiderio di fare l’allenatore, ne sono poi uscito con la voglia di farlo».

Cosa le manca di più?
«Lo spogliatoio. E’ la cosa più bella che una persona può avere: condividere emozioni, condividere tutto con gli altri. Sapere che tutte le mattine vai in un gruppo dove ci scambiano energie, esperienze, visioni . E saranno scelte importanti per te, per la squadra, per il tuo futuro. Non mi manca la partita, non mi manca l’adrenalina che una partita ti dà. Mi manca l’esperienza unica di condividere con altri il calcio e la vita».

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