La Gazzetta dello Sport – Da metodisti a registi dirigono sempre loro

valdifiori

Non esiste una grande squadra senza un grande regista. Così come non può esserci una grande orchestra senza un grande direttore. Questa è la dimostrazione che la bacchetta del comando è fondamentale quando si tratta di leggere e interpretare uno spartito, per poi farlo eseguire ad altri. Pensate alle formazioni più belle e vincenti della storia del calcio italiano e non ne troverete una che abbia fatto a meno del regista: nell’Italia di Pozzo, Mondiale del 1934, c’era Luisito Monti; nel Grande Torino a occupare quel ruolo era Valentino Mazzola; nella mitica Inter di Herrera i lanci di Luisito Suarez erano un trampolino verso il successo; il Milan di Rocco si reggeva sulle invenzioni di Rivera; nel Brasile di Pelè, tanto per uscire dai nostri confini, a cucire la manovra era Didì, maestro di tecnica e professore di architettura. E, arrivando ai tempi moderni, le fortune della Nazionale di Lippi, nel 2006, così come quelle del Milan targato Ancelotti e della Juventus di Conte hanno tutte un minimo comune denominatore: la presenza di Andrea Pirlo, cioè del miglior regista del mondo. Ora che gli anni avanzano, e la carta d’identità è un avversario terribile, è logico ricercare l’erede, ammesso che ci sia. Il c.t. Conte ci sta provando: prima Verratti, poi Valdifiori. Uno più offensivo, l’altro più diligente. Nessuno dei due è ancora all’altezza del maestro, ma si può lavorare per raggiungere buoni risultati.

IERI E OGGI Il calcio in Italia, in un secolo e più di storia, ha cambiato pelle parecchie volte, ma il ruolo centrale del regista è sempre rimasto. Con il Metodo (che era, tradotto in numeri contemporanei, un 2-3-2-3), nel periodo precedente alla Seconda Guerra Mondiale, il c.t. Pozzo voleva un giocatore fisicamente forte, ottimo nel contrasto e nell’immediato rilancio, da piazzare nel ruolo di regista. Si chiamava non a caso «centromediano metodista» e indossava la maglia numero 5, secondo l’usanza dell’epoca. Luisito Monti è il perfetto interprete. Si scrisse di lui: «Accoppia terrificanti durezze nelle chiusure difensive alla qualità dei lunghi rilanci precisi al millimetro con cui arriva il gioco offensivo; è il vertice arretrato di un triangolo con i due interni, Meazza e Ferrari, che collaborano alla costruzione più che far parte del quintetto offensivo». Quando le squadre italiane si convertono al Sistema (il famoso WM) e poi al modulo con il libero e le rigide marcature a uomo, il compito di impostare la manovra e dettare i tempi cade sulle spalle del numero 10. Si pensi a Gianni Rivera, a Luisito Suarez e alle loro invenzioni: tallonati dal primo all’ultimo minuto da un avversario che si occupava soltanto di loro e li seguiva anche negli spogliatoi, riuscivano a dribblare, passare, toccare, lanciare e tirare in porta. Mettevano la loro tecnica e la loro capacità geometrica al servizio della squadra, giocavano con le spalle rivolte alla porta avversaria, prendevano botte e si rialzavano come se fossero uomini di gomma. Vien da sorridere, oggi, quando si sente dire che un regista ha fornita una prestazione mediocre perché è stato marcato a uomo: non succedeva a tutti, trenta o quarant’anni fa? Il fatto è che allora i giocatori avevano le qualità per superare l’avversario, mentre adesso spesso fanno fatica a stoppare il pallone…

QUESTIONE DI TESTA Un buon regista, più che grandi doti atletiche (che comunque sono sempre gradite), deve avere innanzitutto predisposizione al comando, rapidità d’intuizione e di esecuzione. Il suo è un doppio lavoro: sia in fase difensiva sia in fase di costruzione. È lui il primo schermo davanti ai difensori, è lui a dover filtrare i passaggi degli avversari, e guai se viene superato in velocità innescando l’azione di contrattacco dei nemici. Nell’Italia di oggi, rispetto ai tempi di Pozzo, c’è un vantaggio numerico: i difensori centrali sono tre, e non due, quindi il Pirlo di turno ha un supporto maggiore. Quando viene recuperato il pallone, tocca a lui farsi vedere dai compagni per gestire la manovra. Deve avvicinarsi al terzino, ad esempio, e mentre ne riceve il passaggio ha l’obbligo di pensare già alla giocata successiva. È questo l’aspetto che fa la differenza: saper prevedere lo svolgimento della storia, intuire in anticipo quali possono essere gli spazi da occupare o da attaccare. Pirlo è fantastico perché sa sempre come spiazzare gli avversari con lanci improvvisi che mirano a innescare gli attaccanti: sono rasoiate che tagliano in mezzo le retroguardie nemiche e non c’è verso di fermarle. Rivera era addirittura divino, quando veniva servito e si preparava all’assist decisivo: spediva in porta i compagni con impressionante facilità. Suarez era più geometrico e lineare, ma altrettanto efficace. Tutti avevano più cervello che gambe, e i compagni s’inchinavano di fronte alla loro sapienza tecnica e alla loro saggezza tattica. Con Pirlo è la stessa cosa. Auguriamoci che Verratti e Valdifiori seguano le orme dei predecessori.

La Gazzetta dello Sport – A. Schianchi

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