Florenzi: «Mamma Roma e tutte le donne della mia vita»

Corriere dello Sport (W.Veltroni) – Si accarezza la gamba, passa le dita su quella ferita verticale che ha cambiato i connotati del suo ginocchio e quelli delle sue giornate, ormai da mesi. Ma sorride, ha la faccia tipica del bravo ragazzo di questa città. Ha la schiettezza, il senso dell’umorismo, l’intensità che sta scritta nel migliore dna di Roma. E’ un calciatore completo, capace di giocare in tutti i ruoli, dotato di buon lancio e di forte tiro. Generoso, intelligente, è il giocatore che credo ogni allenatore vorrebbe con sé. Ora non vede l’ora di tornare a sentire l’odore del campo e non quello della palestra. Ma Florenzi sa, anche per lo choc della ricaduta, che si gioca solo dopo aver faticato. Come da bambini, quando il pallone lo si vedeva dopo la scuola, dopo i compiti. Chi ama il calcio lo aspetta. Senza mettergli fretta. L’importante è che torni com’è.

La prima domanda è: come va?
«Va bene. Potrebbe andare sicuramente meglio, visti gli ultimi mesi. Adesso sono concentrato sul recupero, ovviamente senza darmi, anche per ragioni scaramantiche, un tempo definito di rientro. Quando starò bene tornerò in campo. E non vedo l’ora, perché giocare mi manca come l’aria».

Come è stato il primo incidente?
«Il primo è stato contro il Sassuolo, su una palla alta. Ho preso una piccola spinta da dietro e, quando sono ricaduto, ha ceduto il legamento del ginocchio. Invece il secondo è accaduto in allenamento con i ragazzi della Primavera. Ho fatto una torsione e mi sono fatto male. Pensavo di stare troppo bene e invece non era così. Sono entrato in campo con l’idea, dentro di me, di non aver avuto niente, non aver riportato l’infortunio. Avevo fretta e voglia di tornare al mio gioco. Forse è stato quello il mio sbaglio: rientrare e pensare di aver superato tutto. Mentre un crociato devi sapere che ti segna la vita e che da quel momento dovrai lavorare ogni giorno con la coscienza di aver subito questo infortunio. Devi sapere che per i prossimi dieci, quindici anni, o fino a quando Dio vorrà che io giochi a pallone, tutti i giorni devi sapere che hai avuto questo problema e che devi lavorare tutti i giorni per prevenire, per fare in modo che non ti succeda più».

Ora fa palestra?
«Faccio tutti i giorni palestra, è dura. Ma so che quando avrò finito non potrò dire: “palestra non si fa più perché sto bene”. Devo mettermi in testa che tutti i giorni dovrò fare qualcosa per assicurarmi che il ginocchio stia bene, le muscolature stiano bene. Altrimenti di carriera ne faccio poca, invece ne voglio fare molta. Questa è la mia volontà e la mia totale disponibilità alla fatica».

Psicologicamente il secondo incidente come è stato? Peggio del primo?
«Sì. E’ stato peggio del primo perché non me l’aspettavo. Il primo l’ho sentito proprio. Una botta tremenda, un dolore lancinante, sul ginocchio. Capisci subito e ti dici che può succedere. Il secondo no, mi sentivo troppo bene perché potesse accadere. Psicologicamente è stata una mazzata. Non posso negarlo, perché altrimenti sarei un falso. Per fortuna avevo a casa mia moglie e mia figlia che mi hanno sostenuto con amore dal 28 di ottobre, quando mi sono operato la prima volta. E poi i miei familiari, mia mamma, mio papà, i miei amici che sono rimasti tutti stretti a me, hanno invaso per giorni Villa Stuart. La clinica alle dieci chiudeva e loro alle due stavano ancora dentro. A tutti loro sarò sempre grato».

Una persona in particolare?
«Non si sorprenda ma devo ringraziare mia figlia. Lei non lo sa, è piccola, ma mi ha salvato già la vita. E’ stata dura: fai l’operazione, hai i dolori, non riesci a piegarti, non riesci a fare una corsa, non riesci a fare quello hai fatto tutti i giorni della vita, la cosa che fai da quando sei bambino e che ti ha fatto innamorare di questo gioco. Rientri a casa e lei non sa niente, ti vede, allarga le braccia e ti sorride. Ripeto: mi ha salvato la vita, mi ha salvato la vita e lei ancora non lo sa. Una cosa bellissima, essere grato a tua figlia bambina».

Quando c’è stato il secondo incidente quanto pensava mancasse al rientro?
«Poco. Perché da lì alla partita con il Palermo restavano venti giorni. Erano altri venti giorni di lavoro e poi, dato che in quel periodo non c’erano partite con la Primavera, avevamo deciso che con il Palermo avrei potuto essere convocato direttamente in prima squadra. I giornali di Roma, sempre molto attivi, avevano previsto già tutto quanto e invece noi, tra virgolette, li avevamo quasi fregati perché nessuno si poteva aspettare che venissi già convocato con il Palermo. Purtroppo non è andata così. Però ormai questa è storia passata. Quindi pensiamo al futuro».

L’ha colpita la vicenda di Pepito Rossi?
«Quando l’ho letto non ci volevo credere. Dico la verità. Perché l’ho conosciuto con Prandelli quando stavamo in Nazionale tutti e due. Ho visto un ragazzo genuino, ho visto un ragazzo semplice, ho visto un ragazzo che non merita tutto quello che gli sta accadendo. Quindi gli faccio, con molto affetto, un in bocca al lupo e sono sicuro che la sua forza di volontà e la sua voglia di giocare a pallone prevarranno anche su questo infortunio».

Ha parlato di sua figlia. Quanto è stata importante la nascita di una figlia?
«Ti cambia. Io e mia moglie siamo stati sempre consapevoli che potevamo farlo da giovani. Infatti l’abbiamo fatta io a venticinque anni e lei a ventitré. Quindi molto giovani. Noi stiamo insieme da nove anni, eravamo piccolini quando ci siamo conosciuti. Dopo cinque sei anni già lo volevamo, un figlio. Solo che non avevamo la casa, non riuscivamo a metterci a posto. Poi ci siamo sposati e abbiamo fatto subito questa piccola creatura che ci ha cambiato la vita. Cambiato in meglio, quello di sicuro. Ti cambia la vita, ti rende più responsabile. Ti cambia la cosa più importante, la gerarchia delle priorità. Tu non conti più niente. Io sto male e non mi importa. Se sta male lei io corro. La priorità è lei. Quando sta bene lei sappiamo di stare bene tutti. E quando sta bene lei e sta bene mia moglie sto bene io. Loro sono la mia priorità».

Sua moglie l’ha conosciuta allo stadio?
«Sì, io stavo andando in curva, in quella partita, e lei stava andando in curva e ci siamo incontrati. C’era Messenger ed eravamo amici in questa chat, una delle prime, ma non ci conoscevamo, non ci eravamo mai parlati. Ci siamo conosciuti in quella curva. Poi siamo usciti nei giorni successivi e il 24 febbraio ci siamo, tra virgolette, fidanzati».

Lei già giocava?
«Io facevo la Primavera. Ancora ero Alessandro. Scherzando le dico che lei ha questo privilegio, che nessuna donna può avere. Mi ha conosciuto quando ero Alessandro, non quando ero Florenzi».

La storia di sua nonna… Lo aveva deciso prima della partita di salire da lei in tribuna?
«L’avevo pensato dentro di me e deciso quando sono entrato in campo. Perché lei non sa niente di pallone. Lei era venuta solo a vivere la gioia di vedere un nipote giocare. Nessuno si aspettava quel gesto, perché non l’avevo detto a nessuno. L’avevo detto a lei, al telefono, scherzando: “guarda che se faccio gol vengo su, a me non importa niente”. Poi quando ho segnato, mi sono detto: “senti, sai che c’è? vado”. Poi prendo un’ammonizione, amen. Non ho pensato che potevo crearle dei problemi, perché poi i giornalisti sono andati per giorni sotto casa a suonare al suo citofono. Lei ovviamente non apriva a nessuno, perché l’abbiamo abituata a fare così. E’ stato un gesto che rifarei mille volte, per renderla mille volte felice».

Perché è stata importante nella sua vita sua nonna?
«Lei e l’altra nonna sono state molto importanti. Sono state un punto di riferimento per me. L’altra nonna viveva con noi e ci ha lasciato all’età di novanta anni. La amavo molto. Per farle capire cosa intendo: le cambiavo il pannolone io. Lei aveva preso il posto di mio fratello, il letto di mio fratello. Io avevo il letto accanto e magari lei si svegliava la notte, aveva l’Alzheimer. La notte diceva Sandro mi porti al bagno? Io mi alzavo, la portavo al bagno, facevo tutto quello che c’era da fare. La nonna dello stadio mi ha dato tantissimo, da quando sono bambino. Ha cresciuto quattro figli, ha fatto veramente tante cose per tutti e quindi mi sembrava giusto e doveroso fare questo gesto per lei».

I suoi genitori che fanno?
«Hanno avuto un bar per più di vent’anni in un centro sportivo. Poi abbiamo aperto un ristorante, ma mio papà non veniva più a vedere le mie partite, perché stava al ristorante. E allora gli ho detto: papà basta non fare più questo, goditi i nipoti, vai in bici, lui è un grande appassionato. Mia mamma ha tante altre cose da fare e soprattutto fa la nonna. Penso sia il mestiere più bello del mondo, anche perché ha altri due nipoti, i figli di mio fratello, due splendidi bambini e quindi il lavoro non le manca».

Qual è il suo primo ricordo del calcio?
«Il mio primo ricordo del calcio è un container. Un container all’Acilia, al circolo. C’erano i campi di calcetto e vicino c’era un container: e dietro al container c’era uno spiazzo di pozzolana. Io lì ho passato la mia infanzia. Dopo scuola andavo da mia madre che lavorava in questo centro sportivo. Mia mamma era sicura che dalle cinque alle otto io non mi sarei mosso dallo spiazzo dietro al container. Poi alla fine della giornata bastava un fischio di mio padre e tornavo da loro. In verità un po’ più di fischi, perché mi piaceva giocare a pallone. E non avrei voluto smetterei mai. Come oggi, in fondo».

Quand’è che dalla pozzolana è passato al campo?
«A nove anni sono andato alla Lodigiani, ho fatto due anni alla Lodigiani. Poi è successa una cosa curiosa. Mi hanno visto tutte e due le squadre che giocano all’Olimpico. Sono andato prima a Formello e poi sono venuto qui a Trigoria, ho parlato con Bruno Conti e appena sono uscito mio padre mi ha chiesto “Ale come ti è sembrato qui?”. “Papà io ho scelto, ho visto Bruno Conti e ho scelto, basta. Quando siamo andati a Formello non ci ha parlato nessuno. Siamo venuti qua e Bruno Conti mi ha parlato. Io ho scelto, rimango qua”».

Quanti anni aveva?
«Undici. Adesso ne ho ventisei. Levi un anno di Crotone. Sono quasi quindici anni che conosco Trigoria».

Com’era la sua stanza da bambino? Che cosa c’era di calcio?
«Di calcio c’erano sei o settecento palloni, c’erano le foto di Francesco, c’era una maglia, che mi ha comprato mio papà, di Balbo. Una maglietta di Francesco, di sicuro, la maglia di Balbo e palloni di tutte le squadre. Se mi volevi fare felice mi dovevi regalare un pallone. Di qualsiasi squadra, non facevo distinzioni, tanto dovevo calciarlo, non contemplarlo. A casa mia non doveva mai mancare un pallone».

Da ragazzino in che ruolo giocava?
«Giocavo davanti. Facevo la mezza punta, facevo il trequartista. Alla Lodigiani facevo il trequartista e alla Roma ho iniziato ala destra, con il 4-4-2, giocavo ala destra. Agli allievi nazionali non giocavo mai, stavo sempre in panchna. Poi è arrivato Stramaccioni e mi ha messo centrocampista, vertice basso. Poi da lì con la Primavera ho giocato sempre nei tre, ho giocato intermedio. Quando sono andato a Crotone ho cominciato a fare tutti i ruoli. Mi aveva visto Menichini qui con la Primavera e mi volle fortemente. Non ci ho pensato un attimo ad andare. Anche perché è stata un’esperienza fantastica. Mi ha arricchito veramente, come uomo».

Era la sua prima volta lontano da Roma e dalla famiglia…
«Quella è stata la mia prima esperienza da uomo perché ho lasciato a casa tutto. Il 15 agosto avevo la mia famiglia, la mia fidanzata a Crotone e quello stesso giorno, improvvisamente, sono andati tutti via. Chi doveva lavorare, Ilenia doveva tornare a scuola e io stavo da solo, sul letto. Non ho dormito, quella notte. Me lo ricordo come se fosse adesso. Non ho dormito perché stavo da solo. Che faccio adesso? Lì cominciai a diventare grande».

Quanti anni aveva?
«Ne avevo diciannove».

Lei è uno strano caso perché, a parte il portiere, credo che lei abbia giocato in tutti i ruoli possibili. Forse le manca di fare il centrale di difesa…
«Ho fatto anche quello in una partita a Crotone nella quale eravamo rimasti in nove, contro il Varese. Visto come eravamo conciati ho detto “mi ci metto io” che dovevo fare? Non le dico cosa è successo: 2 a 0 per loro. Faccio un anticipo dalla difesa, marco mezza città di Varese e faccio gol. Però era finita, la partita».

Lei come si definirebbe? Qual è il ruolo che sente più suo?
«Non lo so. Non sto scherzando. Io ho questa capacità, non le sembri presunzione, di trovare le mie qualità, quello che posso dare alla squadra in ogni ruolo che ricopro. Perché magari tu mi dici gioca centrocampista. Ok gioco centrocampista, ma con le mie qualità, con quello che posso fare, con quello che posso dare alla squadra. Magari un inserimento in più che può darti il gol. Terzino o quinto di destra mi piace, perché giochi una partita tutta tua. Per esempio: da terzino hai molto più tempo per pensare rispetto a quando sei a centrocampo. Ho giocato un anno e mezzo fisso terzino destro, poi sono andato una volta a centrocampo. Non dico che mi sentivo spiazzato, però capivo che dovevo giocare più di prima perché hai mezzo tempo di meno. Da terzino hai l’opportunità magari di stoppare una volta il pallone, di pensare di più il gioco. In mezzo al campo tante volte non ce l’hai, devi giocare di prima. Però adesso come adesso largo a destra mi trovo veramente bene. Con qualsiasi schema di gioco».

Lei resterà sempre a Roma? Vuole fare come De Rossi e Totti?
«Una bella domanda questa. Non lo so, dico la verità, perché è difficile dirlo. Cambiano tante cose, cambiano tanti aspetti magari del tuo carattere, di quello che ti circonda. Penso: sì c’è la voglia di fare il percorso che è stato quello di Daniele, quello di Francesco. Loro sono irripetibili. Hanno fatto cose irripetibili. Francesco e Daniele sono il cuore della Roma e io, secondo me, non potrò mai arrivare a fare come loro. Quindi dico magari sì, può essere così. Però non è detto. Non mi precludo nulla, non posso precludermi nulla. Sarebbe anche bello giocare in altri posti, scoprirli, conoscerli. Però alla fine mi dico, dentro di me, che tutta la carriera a Roma sarebbe bello farla. C’è sempre quella parte di me che dice che sarebbe bello fare come Francesco e Daniele. Anche perché per ora siamo solo noi tre a poter legare la vita calcistica alla Roma e solo alla Roma. Forse è difficile che ce ne siano altri, a breve. Forse ci sarà Cristian, il figlio di Francesco, però non lo puoi mai sapere. Vivo giorno per giorno e vedo quello che mi si prospetta».

Che cosa è stato Totti per lei da ragazzino e cosa poi quando l’ha trovato qui a Trigoria?
«Da ragazzino un idolo. Come poi, quando crescevo, lo è stato Daniele. Uno dei primi ricordi che ho di Francesco è il gol con il Livorno in casa. Lui corre sopra la balaustra e io sono lì sotto che faccio il raccattapalle. E poi quando ha fatto centosette gol: tutti i bambini hanno la maglietta con quel numero. E io quella maglietta ce l’ho. Sta a casa. Poi quando stai in squadra con lui Francesco è tuo fratello. Ci parli di tutto, ci scherzi. Alle volte non pensi che sia Francesco Totti, pensi sia solo Francesco, una persona normalissima. Poi però vedi quello che succede fuori quando dici il suo nome. La stessa cosa quando parli di Daniele. Io con Daniele forse sono ancora più legato. Usciamo insieme, le nostre mogli sono amiche».

Anche in occasione dell’incidente credo che lui le sia stato vicino…
«Daniele… è stato lui a dire ai miei genitori e ai miei amici che mi ero rotto il crociato, la prima volta. Perché dopo il Sassuolo, invece di andare a casa, è sceso dall’aereo ed è venuto a Villa Stuart. E’ stato un gesto che non tutti avrebbero fatto. Questa è una cosa che mi rimane dentro, di Daniele. Il dottore voleva andare a dirlo lui, ai miei genitori e ai miei amici ma Daniele ha detto no, non andare tu, so io come dirglielo. E’ andato di là e e ha detto “tranquilli, Alessandro si è fatto male però non è un problema”. Mia mamma si è tranquillizzata, mio padre anche, anche perché lo aveva detto un giocatore e una persona come Daniele, del quale si fidano. Sono cose che ti segnano e fanno capire anche l’uomo che è Daniele».

Si parla poco di Alberto De Rossi, l’allenatore della Primavera, che secondo me è invece un personaggio importante del nostro calcio. Parliamo un attimo di lui?
«Un grande personaggio. Alberto è stato una persona importante e lo è tuttora per me, perché se devo chiedere un consiglio, mi piace confrontarmi con lui perché è un uomo di calcio. Ha vissuto calcio e fa calcio da più di vent’anni. Tutti i talenti del calcio romano sono passati da lui. Prima di tutto ha valori umani che vanno al di là del pallone. Quando abbiamo vinto lo scudetto Primavera avevamo una squadra fortissima: dieci di quei giocatori sono ora in campionati di B o di A. Alberto ci diceva “sì, è bello vincere perché ti rende orgoglioso, ma quello che mi rende più felice è vedere un ragazzo che ho allenato io per tre anni che poi fa la serie A”. Poi lo do ai grandi, come dice sempre lui. Come valori umani veramente una persona speciale».

Chi è stato l’allenatore più importante che ha incontrato?
«Ci sono tanti allenatori che mi hanno dato qualcosa. Non uno in particolare. Posso dire Zeman, che mi ha fatto esordire in serie A. Mi ha preso che ero giovane e mi ha messo dentro. Sicuramente posso dire Rudi Garcia, posso dire Spalletti, Conte che mi ha portato a fare un Europeo e mi ha fatto giocare. Tutti gli allenatori mi hanno dato qualcosa. Per esempio, perché Rudi Garcia? Perché Rudi Garcia mi ha messo terzino destro. Menichini in serie B mi ha dato molto, ha iniziato a farmi vedere un calcio diverso: quell’anno ho fatto undici gol. Tutti gli allenatori mi hanno dato qualcosa, non solo in ambito tecnico, tattico, di calcio. Mi hanno dato tutti qualcosa per farmi diventare l’uomo che sono ora. Li ringrazio uno per uno. Non uno in particolare».

Fuori dalla Roma chi è il giocatore più forte con cui si è trovato in campo?
«E’ facile, perché abbiamo giocato contro il Barcellona».

Messi?
«Non ci sono dubbi».

Secondo lei oggi è più forte Messi o Dybala?
«Messi. Paulo è bravissimo. Ma se devo scegliere preferisco ancora Messi. Però non è lui il mio giocatore preferito».

Qual è?
«E’ un giocatore strano. E’ Fabregas. Ho giocato contro di lui nell’Europeo. Alla fine del primo tempo, me lo ricordo ancora, gli ho detto “Senti posso chiederti la maglia? Tu sei il mio idolo da quando ho iniziato a giocare”. E lui mi fa: “Scusa ma come è possibile che io sia il tuo idolo se ho tre anni più di te?”. Gli ho risposto “Ma tu hai iniziato a giocare a sedici anni, io a ventuno, ci sono otto anni di differenza”. Comunque era lui il mio esempio. Mi ha colpito una cosa. Dopo il secondo infortunio, un giorno sto a casa e squilla il telefono. Rispondo e sento dire in inglese “Ciao Alessandro, sono Cesc Fabregas”. Ho chiesto a mia moglie un bicchiere d’acqua, perché non mi sentivo tanto bene. Lui ha chiesto il numero a Paolo Bertelli, il preparatore atletico del Chelsea. Sono rimasto così solo un’altra volta. Quando dopo il primo infortunio, mi ha scritto Ligabue, che è il mio cantautore preferito».

Che impressione le ha fatto Juve-Barcellona?
«La Juve l’ho vista veramente bene. Ho visto la squadra compatta che è. L’ho vista anche contro il Napoli. Il Napoli secondo me li ha surclassati, sotto molti punti di vista. Martedì invece ho visto una squadra veramente compatta, veramente aggressiva. Il problema è che il Barcellona pure ci ha abituato a fare sei gol e quindi i bianconeri dovranno stare attenti perché lì sarà sicuramente un’altra storia. Anche se la Juve ha una difesa fortissima. Ha un portiere incredibile, quindi hanno buone possibilità di farcela».

Quel gol strepitoso che ha fatto al Barcellona come le è venuto?
«Così. Nel senso che il portiere l’ho visto fuori. Lo sapevo che stava fuori. Ho alzato gli occhi e ho visto che c’era Dzeko che tagliava tra i due difensori. Il portiere era molto fuori e ho pensato: se la do a Edin è persa. Mi sono detto: io ci provo. Tutto questo l’ho pensato in un secondo, però si vede nelle immagini che io alzo la testa, guardo loro due, vedo il portiere fuori. In quel momento mi è venuto in mente di farlo: male che va finisce fuori, la palla si rimette lì in mezzo, ci risistemiamo bene compatti e si riparte. C’è stato istinto. Senza un po’ di tecnica la palla lì non ce la metti. Senza un po’ di culo prende il palo, sono cinque centimetri, si parla di centimetri. Il calcio è centimetri. C’è tanto istinto, c’è anche un po’ di tecnica, c’è quella giusta misura di fortuna che, quando ti vuole assistere, può far venire fuori il gol dell’anno. Non per la Fifa, perché il Brasile è più grande dell’Italia e quindi ho perso con un giocatore brasiliano che ha smesso di giocare a pallone. Una beffa».

E Francesco Totti che le ha detto?
«“Hai sbagliato. A me lo puoi dire…”. Mi prendeva in giro. Lui è sempre così. Poi però mi ha detto che avevo avuto coraggio a fare una cosa del genere».

Vincere a Roma è così difficile?
«La storia purtroppo dice questo. Siamo particolari. Perché un giorno alla Roma sei un campione e l’altro sei il giullare di corte che non riesce a fare un passaggio. Purtroppo Roma è questa. Se riusciremo a cambiare questa mentalità forse faremo qualcosa di importante perché i tifosi lo meritano, la città lo merita. Però l’ambiente non aiuta. Quante radio romane che parlano di calcio ci sono? Quanti siti ci sono che parlano di Roma tutti i giorni? Vuol dire che tutto il giorno si parla della squadra. Tutto il giorno vuol dire che trenta persone diverse dicono trenta cose diverse e la gente può anche condividerle tutte e quindi nulla è facile. Questo non aiuta. Al tempo stesso sai che se fai tre vittorie tutto diventa una bomba atomica di passione ed emozione. Quando vinci qui è come se vincessi tre trofei da un’altra parte. Perché poi la città impazzisce di gioia e di allegria».

Crede allo scudetto?
«Perché no? Finché la matematica non ci condanna io non smetto di crederci. Ci sono sette partite. Noi dobbiamo cercare di vincerle tutte e sette. Pensando partita dopo partita, pensando che siamo una squadra forte che può vincere con chiunque. Poi, ovviamente, ci vogliono tanti altri fattori. Però dobbiamo crederci».

Che cosa è un derby per un giocatore romano?
«Non è una partita come le altre. E’ una partita che fa storia a sé. Anzi adesso, rispetto a quando ho giocato il mio primo derby, si sente di meno. Prima arrivava un giocatore nuovo a luglio e doveva subito sapere in quale giorno c’era il derby. Parlando con Ciro Immobile, ci sentiamo spesso, abbiamo detto “Mamma mia però come si sente qua”. Gli ho detto: “E lo dici a me? Quando gioco ho un’ansia che neanche all’esame di stato”».

Quanto le va di tornare in Nazionale?
«Tanto. Mi va di tornare in Nazionale. Mi va di tornare a giocare per la Roma. Mi va di tornare a giocare a pallone. Presto. E’ una cosa che ho in testa. Nessuno me lo può levare. Sono sei mesi che sono un po’ più nervoso. Ho un po’ più di stress. Mi manca entrare in campo, l’adrenalina della partita, del prepartita, quella del dopopartita. Sono sei mesi che non vivo queste sensazioni. Mi manca tantissimo. Mi manca di avere la febbre. Quella febbre».

Più o meno quando pensa di farcela?
«All’ inizio del campionato spero di stare bene. Sono comunque sette otto mesi, me la sto prendendo veramente molto larga. Spero di stare bene per aiutare la squadra».

Qual è la cosa che le manca di più?
«Entrare in un campo verde. Anche per fare riscaldamento».

Se dovesse portare su un’isola deserta la maglietta di una partita, di una sola, quale sceglierebbe?
«Mi porto la prima. Mi porto il 48 di Roma-Sampdoria. Quando sono entrato, solo per tre minuti. Ma quel giorno si era avverato il mio sogno: quello di esordire in serie A».

Come lo ricorda quel giorno?
«Io non pensavo ovviamente di entrare. Erano già due tre partite che andavo in panchina. Ad un certo punto, sul 2 a 0, il mister mi dice “Ale vieni che entri”. Poi vedo che chiama Totti per la sostituzione. Francesco non mi ha detto una parola in quel momento. E’ bastato il suo sorriso per farmi rilassare. Poi ho corso, solamente corso. La palla non l’ho mai toccata. Tre minuti. Sono entrato e ho corso solo. Però è bastato».

Cosa la rende più orgoglioso: essere sulle figurine o tra i personaggi della Playstation?
«Playstation, cento per cento. Anzi li devo ringraziare perché dopo vari anni hanno cambiato la foto. C’era una immagine mia ai tempi di Zeman, con i capelli corti, senza la barba. Avevo diciotto anni. Adesso hanno messo quella della Nazionale. Sono più io».

Il sabato e la domenica che fa?
«Adesso lo dedico quasi esclusivamente a mia figlia. Il primo mese e mezzo di vita, mia figlia l’ho vista pochissimo. Quando è nata, quando la pazza geniale di mia moglie me l’ha portata a Montpellier, dove ero in ritiro con la nazionale. Mia figlia a diciotto giorni ha preso l’aereo. Un giorno mi hanno fatto scendere senza dirmi perché. Io l’ho fatto ma non capivo perché e non vedevo nessuno. Mi sono girato e ho visto lei con la carrozzina. Un momento bellissimo».

Ricorda una cosa bella che le abbiano detto i suoi genitori durante la carriera?
«Somaro. Questa è la cosa che mi dice sempre mio papà. E quando mi dice somaro vuol dire che ho fatto bene qualcosa. Lui non mi ha mai detto bravo. Poche volte me lo ha detto. Ha cominciato un po’ più tardi. All’inizio della carriera, dicevo: “Papà ti è piaciuto l’assist che ho fatto?”; “Sì, ma hai fatto una cosa normale. Dovresti farla tre o quattro volte a partita”. Mi ha insegnato a non accontentarmi mai. A cercare il meglio, sempre. A non arrendermi di fronte alle difficoltà. Quello che sto facendo ora. Lavoro ogni giorno per tornare a giocare. Con l’entusiasmo, proprio lo stesso, che avevo ad Acilia. Nello spiazzo di pozzolana dietro al container».

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