Conti: “Non dimentico Simoni e Liedholm. Prima del Mondiale avevo una distorsione ed ero preoccupato ma Bearzot mi disse che il posto era mio. La finale contro il Liverpool rimane una ferita aperta. L’ultimo anno alla Roma è stato sofferto”

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Bruno Conti, ex calciatore della Roma, è stato intervistato dal Corriere dello Sport. “Marazico” ha parlato del suo passato e del suo presente nella squadra giallorossa. Queste le sue parole:

Facevo il chierichetto in parrocchia, a Nettuno. C’era, nell’oratorio, un campetto di terra battuta, circondato da mura di cemento. La palla non usciva mai, sbatteva e tornava in campo. Io passavo lì molto tempo a palleggiare, fare dribbling, tirare rigori e punizioni. Ma il mio cuore era diviso tra calcio e baseball. A Nettuno gli americani sbarcati per liberarci avevano portato non solo la libertà, il boogie woogie e le sigarette ma anche il baseball, loro sport nazionale. Per generazioni si è tramandata questa passione, venuta dal mare. Vennero i dirigenti di una squadra importante, il Santa Monica, e chiesero a mio padre se potevano ingaggiarmi. Mio padre prese la sua decisione, ero troppo piccolo, non era il caso. E grazie a quel padre apprensivo o forse solo responsabile sono arrivato fino a Madrid.

Gli inizi:

“Mio padre si alzava la mattina alle quattro e andava a lavorare, faceva il muratore. Eravamo sette figli. Dormivamo in una casa modesta ma non ci hanno mai fatto mancare nulla. Ricordo il calore rassicurante della stufetta di legno che riscaldava l’ambiente e tre dei miei fratelli che dormivano nello stesso letto. Mia madre mi urlava di smettere di giocare e di andare a lavorare, che servivano i soldi a casa. Feci vari provini con squadre come il Bologna, la Sambenedettese e anche la Roma. Herrera mi vide e disse che sì, tecnicamente ero bravo, ma non avevo il fisico da calciatore. La stessa risposta si ripeteva, sempre. Fu un periodo difficile. Tra il no di papà all’America e le porte sbattute dalle squadre blasonate, mi chiesi se stavo facendo la cosa giusta. Poi mio cugino aveva un bar a Lavinio e organizzava dei tornei di calcetto. Mi chiamò e io trovai Di BartolomeiGiordano, Di Chiara. Andavano in ferie lì, erano già nelle giovanili delle loro squadre, fortissimi. Mi sembrava un sogno. Fatto sta che feci un nuovo provino, questa volta con Liedholm. E fui preso. Ero un giocatore della Roma. Per mio padre che aveva anche il cuore giallorosso, fu il momento più bello della vita”.

Inizio carriera e il prestito al Genoa:

“Ricordo tutto. C’erano le targhe alterne e da Nettuno partì praticamente tutta la città in treno per venire all’Olimpico. Era un Roma-Torino. Io mi procurai un rigore. Poi Domenghini sbagliò. Poi mi mandarono al Genoa per farmi le ossa, dovevo giocare e una squadra di B era l’idea le per uno, come me, alle prime armi. Quando lo dissi a mio padre ascoltò e quando finii non disse una parola. Girò il ciclomotore e se ne andò. Vedo ancora la sua figura allontanarsi. Come se io avessi tradito la Roma. O la Roma lui”.

Simoni e Liedholm due persone fondamentali:

Gigi Simoni, grande tecnico e grande galantuomo. Mi ha dato tanto e io non lo dimentico e Nils Liedholm. Tornai a Roma, dopo l’esaltante esperienza al Genoa, ma non andò bene. La Roma, a fine campionato, scelse Pruzzo e il Genoa in cambio chiese me. Rischiammo la C e io vacillai. Liedholm  volle riportarmi a Roma, per la gioia di mio padre”.

Il suo ruolo, l’ala, Conti dice la sua sul migliore:

“Potrei dire Causio o Sala, e non sbaglierei. Invece dico Angelo Domenghini. Quello che ha fatto  lui nel Cagliari con Riva è qualcosa di straordinario. Si consumava a fare chilometri per tenere sempre raccordata la squadra. Era magro, sembrava patito, perché si faceva in quattro anche per gli altri”. 

Il Mondiale del 1982 dove Conti fu eletto miglior giocatore:

Prima di partire mi ero provocato una distorsione, in una amichevole. Ero preoccupato, era l’occasione della mia vita. Un giorno Bearzot mi guardò mentre mi allenavo e mi prese da parte: ‘Bruno, non affrettare i tempi, il posto è tuo e non te lo toglie nessuno’. Mi sentii liberato. Con me e con Pablito, Bearzot fu particolarmente generoso. Sono felice che ambedue lo abbiamo ripagato nel migliore dei modi. Venivamo da tre partite brutte e avevamo davanti le due squadre più forti del mondo, Argentina e Brasile. Maradona, Zico, Falcao, Passarella… Facevano paura. Tutti ci salutavano con dei risolini, come dei morti che non sapevano di esserlo. E avevano pronti coltelli e veleno. Però noi ci dicevamo: ‘in fondo siamo una squadrone, non abbiamo nulla da perdere, proviamoci’. Per fortuna in squadra avevamo il difensore più difficile che mi sono trovato davanti in carriera. Lo stesso che, per fortuna, rese la vita impossibile a Maradona e Zico. Siamo grandi amici ma lui, quando ti marcava, era un grande paraculo. Ti tirava la maglia, te ne faceva di tutti i colori. Era tosto, Gentile. La mia bestia nera”.

La Coppa dei Campioni contro il Liverpool:

Noi eravamo sotto una pressione micidiale. Ancora ricordo come un incubo Grobbelaar che faceva le moine, non stava mai fermo, faceva finta di svenire. Irritante. Io tirai in curva quel rigore. Ma dopo averlo sbagliato pensai che avremmo recuperato, che anche loro avrebbero fatto un errore. Fu, dal punto di vista sportivo, una tragedia. Una ferita che sanguina ancora. Nello spogliatoio nessuno parlava. Liedholm aspettò un po’ e poi disse: ‘Smettetela di disperarvi. Siete stati bravi, avete fatto una buona partita contro un avversario molto forte. Ora concentriamoci sulla finale di Coppa Italia’. Vincemmo, fu un riscatto. Almeno in parte”.

La partita di addio:

L’ultimo anno con la Roma è stato sofferto. Altre squadre mi volevano. Ma io avevo deciso di finire con la mia maglia, quella giallorossa. Anche per mio padre. Così arrivammo alla sera della partita di addio, contro una selezione di campioni di tutto il mondo che erano venuti per me. Il giorno prima avevamo perso la Coppa Uefa con l’Inter e io temevo non ci fosse nessuno allo stadio. Appena il pullman si è mosso dall’albergo abbiamo trovato auto e motorini che ci suonavano e all’Olimpico c’erano ottantamila persone. Un clima incredibile. Io ero in trance. Alla fine feci il giro del campo con i miei figli, uno con la maglia della Nazionale e uno con quella della Roma. Mi fermai davanti alla Curva, mi inginocchiai per ringraziare dell’amore che mi avevano dato i tifosi“.

La sua nuova carriera con la Roma:

“Ho cominciato a girare i campi di periferia. Ho trovato De Rossi, Aquilani, Bovo, Florenzi, Bertolacci, Romagnoli. Mi piaceva il rapporto con la gente, con le famiglie. Totti? Francesco è la Roma. Una squadra non è fatta solo dei giocatori. Francesco lo capisci se conosci la sua famiglia, le sue radici nella città, i suoi valori fatti di sacrifici e di amore per la squadra. Quanto avrebbe potuto guadagnare se fosse andato in Spagna o in Inghilterra? Ha dato alla Roma le sue ginocchia e la fatica di ricominciare ogni volta. Lo ammiro. Come calciatore e come persona. Il più forte del campionato è Florenzi. Anche a lui, come a me, dicevano che era troppo mingherlino. Ma è un fenomeno, capace di giocare in tutti i ruoli“.

 

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