Viaggiando nella Hall Of Fame: Rodolfo Volk, lo “Sciabbolone” che era ‘n mago pe’ segnà

Pagine Romaniste (F.Belli) – Il mito di Bolteni nasce alla Fiorentina, dove gioca per una stagione intera disputando anche la seconda gara non ufficiale del club. Nel 1928 poi si trasferisce alla Roma, divenendone nel giro di pochi anni un’assoluta leggenda. Mai sentito parlare? Normale, perché quello non è il suo vero nome. E’ uno pseudonimo che ha dovuto utilizzare durante il servizio militare. Il suo vero nome è Rodolfo Volk, che in sloveno significa lupo, forse un segno del destino. In continua evoluzione, visto che poi diventerà “Folchi” per la volontà fascista di italianizzare i nomi. È per questa confusione onomastica che i tifosi della Roma saranno costretti ad affibbiargli più soprannomi: il più famoso è “Sciabbolone”, per i tiri potenti di cui era capace e contrapposto al dispregiativo “Sciaboletta” assegnato a Re Vittorio Emanuele III. E poi “Sigghefrido”, come il leggendario eroe della mitologia nordica. E’ anche l’uomo delle prime volte: suo il primo gol in Serie A della Roma, suo il primo gol a Campo Testaccio, suo il primo gol al derby. “Volke” era un attaccante formidabile, veloce e dotato di un tiro potentissimo, e come diceva lui stesso: “Io non penso, tiro”. Caratteristiche che, messe insieme a un compagno di reparto straordinario come Fulvio Bernardini, hanno creato terrore e scompiglio nelle difese avversarie. Dirà di lui lo stesso “Fuffo”: “Una volta l’ho visto sollevare dal fango un pallone sprofondato per due terzi nella melma, reso pesante dall’acqua che lo aveva impregnato, e farlo volare fino all’incrocio da una distanza di trenta metri. E’ stato il gesto tecnico più straordinario cui abbia mai assistito”.

L’esodo giuliano dalmata e la morte in miseria

“Sciabbolone” era di Fiume, una città di confine che al termine della seconda guerra mondiale è stata annessa alla Jugoslavia. Con l’esodo giuliano-dalmata ha dovuto abbandonare tutto: la casa, il lavoro, i conti bancari. Scappando fu poi smistato in un campo profughi vicino ad Arezzo, salvo poi tornare nella Capitale come portiere nell’edificio Totocalcio a Ponte Milvio, probabilmente grazie all’aiuto dell’amico di sempre Bernardini. Giorgio di Giuseppe, autore della sua biografia, ha detto: “Lo ammiro perché, nonostante tutto il mondo gli sia caduto addosso, ha salvato la famiglia con grande dignità”. Alla fine morì in miseria e solo in una casa di cura dei Castelli Romani, passando le giornate a ricordare uno dei gol segnati contro la Lazio o il boato di Campo Testaccio dopo ogni gol, crogiolandosi nella memoria dei bei tempi andati. Diceva la filosofa Simone Weil: “Quanti esseri umani al giorno nostro muoiono, dimenticati, di miseria e di abbandono…Ma nessuno si chiede cosa sia accaduto nel loro spirito e nel loro cuore. Si preferisce non pensarci”. Per questo è importante conoscere la storia di Volk, per pensarci, per non dimenticare uno dei primi che hanno fatto grande la nostra Roma. E i tifosi della Roma lo ricordano ogni domenica allo stadio, quando cantando “Campo Testaccio” prima di ogni partita urlano “Vorche è ‘n mago pe’ segnà!”.

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