Viaggiando nella Hall Of Fame: Damiano Tommasi, l’anima candida che ha trasformato i fischi in applausi

Pagine Romaniste (F. Belli) – Per Capello in quella stagione è il giocatore più importante della squadra. Più di Totti, Montella e Batistuta. La stagione, ovviamente, è quella del terzo scudetto e il soggetto è Damiano Tommasi. Meglio conosciuto come “Anima candida” per la sua estrema generosità e sincerità. Viene acquistato dalla Roma nel 1996, dopo esser stato uno dei protagonisti della promozione del Verona dalla B. Inizia tra gli applausi, che in breve si tramutano in fischi. È la stagione di Carlos Bianchi e quando le cose vanno male serve un capro espiatorio. Mite, silenzioso, sincero, tutte caratteristiche che lo portano a essere la perfetta vittima sacrificale di una stagione maledetta. Ma quei fischi tornano presto, di nuovo, applausi. Non per delle belle parole dispensate nel verso giusto, non è un comportamento da “anima candida” quello, ma grazie alle prestazioni sul campo. “Tutti sono utili, nessuno è indispensabile” dice un proverbio. Sbaglia: Damiano Tommasi era l’emblema dell’indispensabilità. Fino a quella maledetta amichevole d’inizio estate.

L’infortunio e il ritorno in quella ultima, indimenticabile, stagione d’addio

Era il 2004 e i giallorossi affrontano lo Stoke City. Un certo Gerry Taggart, che Massimo Marianella non esiterebbe a chiamare un criminale prestato al calcio, si rende protagonista di un contrasto violento. Cattivo, brutto, esagerato per una partita di campionato figurarsi per un’amichevole. Il responso è al limite del drammatico: rottura del crociato anteriore, rottura del crociato posteriore, del collaterale mediale esterno e interno, dei due menischi, infrazione dei condili e, dulcis in fundo, del piatto tibiale. Un elenco infinito che porta a una sola estrema conseguenza: appendere gli scarpini al chiodo. Ma non ci riesce. Non lui, non Damiano Tommasi. Si rimette in moto e 15 mesi dopo è ancora “lì, sempre lì. Lì nel mezzo a coprire certe zone e a giocare generoso” come direbbe Ligabue. Per di più gioca a 1500 euro al mese. Perché? L’anno precedente, quello dell’infortunio, era in scadenza e ha deciso di firmare al minimo sindacale pur di rimanere nella Capitale. Non da tutti in un calcio dove protagonisti sembrano sempre meno calciatori e più Paperon de’ Paperoni. Anzi da nessuno. Anni dopo ricorderà quella stagione come la più bella della sua carriera, più bella anche di quella del tricolore. La sua più grande sfida, vinta sul campo passo dopo passo. Poi andrà al Levante, al Qpr, in Cina e persino a San Marino. Ma il suo cuore resterà sempre lì, nello stesso posto dove tutto sembrava perduto dopo che le gambe gli avevano detto addio.

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