I sogni di Paredes: «Torno giallorosso e volo all’Olimpiade con l’amico Dybala»

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La Gazzetta dello Sport (F.Velluzzi) – Qui tutto è libero, allenamenti a porte aperte, calciatori che sorridono e parlano con i tifosi, qui si fa calcio, spensieratezza e tanto pallone, qui si insegna calcio, maestri che urlano per il campo, sudore, divertimento. Qui, a Empoli, nel campo adiacente il Castellani, è sbocciato definitivamente il talento di Leandro Paredes, ventunenne super tatuato di Buenos Aires, nato «umile» col chiodo fisso di emulare il suo idolo: Juan Román Riquelme. Paredes è definito introverso. «E invece sono solo timido». Ti spalanca due occhi stupendi che incanterebbero le tante groupies a caccia di calciatori. «Ma nella mia vita c’è Camila e da due anni e mezzo anche Victoria. Non che non guardi una ragazza, ma sto bene così, sto tanto a casa con la famiglia». Marco Giampaolo che lo ha inventato distributore di gioco, coscienza di un Empoli miracoloso, non ha dubbi: «Leo ha la testa del giocatore vero, arriverà».

Leandro, Giampaolo la incorona. Eppure le ha cambiato il ruolo… Dall’idea del trequartista a centrocampista centrale.
«Gli devo tantissimo. Mi piace. Mi parla, mi insegna tanto, mi fa vedere i video delle cose che sbaglio, ma anche quelle che faccio bene. E in questo ruolo mi trovo bene, ho sempre la palla tra i piedi e io sono nato con la palla. Pensate: a 4 anni mangiavo con la palla sotto il tavolo».

Nato ricco o povero?
«Direi umile. Papà faceva il muratore, ma non ha mai fatto mancare nulla né a me né alle mie due sorelle. Ora non lavora più e io ho preso una casa per tutti loro. Che hanno sempre voluto il mio bene. Lui, qualche volta, mi portava a vedere il Boca Juniors. La fortuna è che da noi i biglietti non costano cari, come invece in Italia. E infatti gli stadi sono sempre pieni».

Il Boca, la sua vita.
«Proprio così. Un derby Boca-River è qualcosa di incredibile, difficile anche da descrivere. Ne ho giocati un po’. Anche con la maglia numero 10 che fu di Riquelme, ma ho sempre tenuto la 32 che fu la casacca che mi assegnarono proprio lì, al Boca».

La fece esordire Claudio Borghi, mentre Carlos Bianchi la teneva fuori…
«Lui ci credette subito, Bianchi invece faceva giocare Riquelme, ma quasi mai me. Un po’ strano in effetti, in Argentina i giovani giocano subito e tanto: i club devono fare cassa e hanno bisogno di venderci all’estero».

Lei è arrivato alla Roma a 20 anni grazie al d.s. giallorosso Walter Sabatini. È passato dal Chievo, ha assaggiato la «Magica» in tutto per 13 partite e ora è ad Empoli. Si sente pronto per il grande salto?
«Sì, mi sento pronto. Mi piacerebbe tornare alla Roma (è qui il suo agente Pablo Sabbag), la A è più tecnica della Premier. Il calcio va di corsa, ma dalla tecnica non si può prescindere mai. Al Chievo fu una parentesi particolare, arrivai infortunato alla caviglia e mi integrai solo alla fine. Garcia mi ha dato fiducia, mi voleva tenere, ma penso che Empoli sia stata la scelta giusta. Allenamenti molto intensi, non ho avuto bisogno di fare sedute specifiche, come accadeva a Roma. Solo due volte a settimana mi esercito sui calci piazzati».

Chi guardava e chi guarda?
«Ovviamente Riquelme. Per me lui era il calcio. L’ho vissuto, conosciuto, lo sento sempre, mi ha insegnato a distribuire il gioco e a proteggere la palla. Maradona l’ho visto solo in tv. Poi Zidane, che mi piaceva tanto e ora Pirlo che oggi calcia meglio di tutti. A Roma c’erano Pjanic e Totti, uno che calcia sempre forte».

Già, Totti, cosa ha significato?
«Un campione, un’emozione viverlo. Io guardavo però più Radja Nainggolan, il più forte centrocampista di questa Serie A. Ha tutto: forza, tecnica, energia, è completo».

Ora è lei che aspira a diventare il futuro della Roma e pure della Nazionale argentina. Tata Martino vuole portarla a Rio.
«Le dico la verità: lavoro ogni giorno per questo. Per giocarmi l’Olimpiade insieme con il mio amico Paulo Dybala».

Così nessuno storcerà il naso se la chiameranno il mago…
«È un’invenzione romana, a me alla fine basta Leo».

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