Roma, è tua! La Conference League incorona i giallorossi: Zaniolo piega il Feyenoord

La Repubblica (M. Pinci) – C’era solo un uomo che poteva spezzare l’incantesimo. Solo un uomo che poteva prendere una squadra svuotata e farne una regina. La sua regina. È bastato un anno a José Mourinho per spezzare 14 anni di digiuno romanista da trofei, e uno molto più lungo, il tabù che in Europa aveva fermato questa squadra sempre a un centimetro dalla gioia, dall’euforia.

Quella esplosa in una notte albanese, in uno stadio piccolo non solo per la gente ma per contenere l’emozione: che forse era troppa per qualunque impianto, se in una notte così non sono stati sufficienti due stadi, con l’Olimpico sold out senza che lì rotolassero palloni. La Roma che vince, chi la ricordava più. Che in una notte cancella le delusioni delle finali perse col Liverpool e con l’Inter, che cancella gli anni in cui ogni estate si guardava al mercato non con le speranze come fanno tutti i tifosi, ma con la paura di chi avrebbe salutato.

Ora che tutti sono rimasti, è arrivato l’imponderabile. Una coppa europea, la prima della storia nell’ambito Uefa, la prima in assoluto visto che la Conference League non l’aveva ancora mai vinta nessuno. Anche per questo José Mourinho ci teneva: essere il primo a mettere il suo nome su quel trofeo. Ma non era l’unico. Ci teneva Lorenzo Pellegrini, che quando Totti sollevò l’ultimo trofeo, la Coppa Italia, doveva ancora finire le scuole medie: faceva il raccattapalle, a volte, e magari sognava di emularlo.

Ora l’immagine come in un gioco di specchi, in un romanzo popolare, s’è rovesciata, con Totti in tribuna ad applaudire Lorenzo. Ma questa emozione, un trofeo europeo sollevato al cielo no: nemmeno Francesco l’aveva provata mai. “E mai avrei immaginato a 25 anni di togliermi questa soddisfazione con questa maglia e fascia addosso“, ha sorriso il capitano di oggi. Pellegrini è adesso il primo romano, il primo capitano nato in questa città che ha stritolato con le sue ambizioni esasperate migliaia di allenatori per poi inchinarsi a chi è più grande persino di lei, in quell’universo distorto che è il mondo del calcio.

Un gol: tanto è bastato. E fa sorridere, perché Roma negli anni ha fatto papi allenatori che l’avevano inebriata con l’idea di un calcio propositivo, ma poi per vincere ha pensato prima di tutto a trasformare l’Arena Kombetare in un ring: il terreno migliore per le squadre di José, che nel corpo a corpo studiato, strategico, ha costruito una fortuna inesauribile. E forse è anche questo che ha riavvicinato la gente a questa squadra, riempiendo stadi per una stagione intera anche contro le ultime in classifica: la sensazione che sia disposta a combattere per i propri obiettivi.

Quasi un contrappasso, rispetto alle isterie, alle fragilità, a quel vorrei ma non posso che per anni è stato la lettera scarlatta sulla squadra. “La nostra è una storia dolorosa, di sconfitte“, disse a Leicester Mourinho. Non era neanche un mese fa, eppure sembra passata una vita. Ed è bastato un gol per voltare quella pagina. Ma la cosa più significativa è che quel gol l’abbia segnato Nicolò Zaniolo: il ragazzo che a Roma incarna più di ogni altro la proiezione, il sogno, l’idea di un futuro migliore, di una prospettiva diversa.

L’angelo a cui la sorte ha spezzato due volte le ali e che è sempre tornato, fino al riscatto. Il più bello possibile, nell’anno più difficile, tra rapporti complicati e tensioni. Il suo zampino ha spostato l’equilibrio di una gara sofferta, in cui la Roma ha saputo difendersi con i denti nella ripresa, ringraziando i legni due volte (sulle conclusioni di Trauner da due passi e Malacia da fuori, qui con l’intervento provvidenziale di Rui Patricio, il migliore dei giallorossi) e sfiorando il raddoppio con Pellegrini. Eppure, con ancora la coppa in mano, sembra quasi che una vittoria non basti a cancellare la fame lasciata dal digiuno: “È un punto di partenza, questo deve essere“, dicono tutti.

È il mantra, prima di tutto, della famiglia Friedkin. Il segno che qualcosa è cambiato davvero. Non più solo nelle intenzioni. C’era un contatore che, tra la speranza e il sarcasmo, contava irriverente i giorni, le ore, i minuti e i secondi passati dall’ultima coppa. Azzerate tutto: la Roma sa di nuovo vincere. 

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