Il rifugio di De Rossi lontano da Roma: “Chi critica non rispetta”

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La Repubblica (F.S.Intorcia) – La più consistente scoperta che ha fatto Daniele De Rossi da quando ha superato i trent’anni è che non può più perdere tempo a rispondere alle critiche che non gli va di sentire. «L’esperienza mi ha insegnato che chi ti giudica non sa di cosa sta parlando, non distinguerebbe un pallone da una noce di cocco». Come il Jep Gambardella di Sorrentino, parla con sincerità senile e spietata, libero da qualsiasi calcolo diplomatico, e lancia uno sguardo che sembra malinconico sulla propria storia e sulla sua città, e invece no. «Nessuna malinconia, sono sereno. Io non sono un ruffiano, non lo sono mai stato. Una parte della verità è che non ho mai cercato di vendermi dietro le quinte. L’altra è che non sempre c’è la capacità di analizzare, soprattutto a Roma, cosa succede a un giocatore durante una stagione. Molte partite le ho saltate per infortunio, alcune perché la squadra vinceva e non c’era necessità di cambiare nulla, anche se in questi casi in tanti subito dicono di me: è fatta, ce lo siamo levati di torno. Se farò il commentatore, terrò a mente l’esempio di Adani: bisogna essere sempre rispettosi prima di sparare sentenze».

Il suo successo d’esordio, il Mondiale vinto in Germania, è lontano dieci anni, adesso tutti gli chiedono di scrivere un altro romanzo, da senatore di una squadra che annovera, lui incluso, tre campioni del mondo. Nel 2006 divideva la stanza con Pirlo che lo aiutò a risollevarsi nei giorni grigi della lunga squalifica. Adesso, del Maestro ha raccolto il ruolo e il rispetto presso gli avversari, che lo marcano a uomo, «ma io non sono né Pirlo né Iniesta, si saranno sbagliati, mi avranno scambiato per un altro». Eppure, per la prima volta quest’anno De Rossi ha temuto di non far parte della spedizione, non per ragioni tecniche ma fisiche, «mi sono stirato due volte e quando non giocavo pensavo che il ct si sarebbe spaventato».

Il mondo di De Rossi è la sua casa a Campo de’ Fiori, un altro figlio in arrivo dalla moglie Sarah Felberbaum, la passione per Lucio Battisti e i Coldplay, la bottiglia che gli ha regalato Ennio Morricone da aprire per quella vittoria che nella capitale aspettano dal 2001, la capacità di perdersi nei libri, come Shantaram di Gregory David Roberts, le cuffie per caricarsi prima della partita con Offend in Every Way dei White Stripes. Al mensile So Foot raccontò che quand’era bambino, e aveva un casco d’oro in testa, per lui c’era solo la Roma, non la Nazionale. Faceva il raccattapalle e Buffon gli regalò i suoi guanti: un segno. L’amore per l’azzurro sbocciò all’approdo a Coverciano, leggendo i nomi dei grandi del passato, e col tempo l’Italia è diventata il suo secondo club, il luogo in cui rinascere, depurarsi dei veleni romani, esprimere soltanto la sua classe purissima, senza pensare a niente, anche se lui ricorda che «ora sono stato giudicato positivamente qui perché abbiamo vinto due gare, ma nella Roma ritengo di aver giocato partite migliori». Nella storia azzurra c’è già da un pezzo: è il centrocampista che ha segnato di più (18 reti), è 15° assoluto fra i marcatori, a due reti da Paolo Rossi, e al 6° delle presenze, con la possibilità di superare Zoff e Pirlo. Se Totti lasciò la Nazionale nel 2006, De Rossi non medita di abdicare: dovrà essere Ventura a decidere se farne un perno della squadra chiamata a lottare per il mondiale in Russia. Per ora, gli tocca la staffetta con Thiago Motta. «Non l’ho chiesta io, noi giocatori siamo egoisti, vorremmo sempre giocare. Ma accetto quello che decide Conte, è la nostra arma in più».

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