Reja: «Roma, il mio vero derby»

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Il Corriere Dello Sport (R.Maida) – Una lunga chiacchierata, un solo paletto: «Non mi faccia passare per fenomeno, non lo sono e non mi interessa esserlo». Allora mettiamola così: Edoardo Reja è il campione della normalità trasversale, mai in ritardo rispetto al tempo che passa. Sorride al calcio e alla vita, senza chiedere niente in cambio: «Ho avuto tanto, non mi pento di niente». Domenica sfiderà la Roma, che è stata una sua avversaria speciale negli appassionanti anni di Lazio.

Reja, per lei è sempre un derby?
«Sicuramente. Non posso dimenticare i colori, i tifosi, l’atmosfera di quella partita. Speriamo di fare punti, perché la mia Atalanta ne ha bisogno. E se ci salviamo chissà, magari nella prossima stagione potremo pensare anche noi all’Europa».

All’andata ha vinto all’Olimpico giocando una partita spettacolare.
«E’ vero ma era un’altra Roma. Non sembrava nemmeno una squadra, era più un gruppo di singoli. Non so cosa sia successo con Garcia, di sicuro con Spalletti sarà molto più difficile ottenere un bel risultato».

Cosa è riuscito a trasmettere alla Roma il nuovo allenatore?
«Velocità, organizzazione, sacrificio. Lo ammiro da molto tempo: è stato tra i miei modelli, come tutti gli innovatori».

Cosa ha inventato Spalletti?
«E’ stato il primo a valorizzare la tattica del falso nove, che in parte applica anche adesso».

Gli altri modelli chi sono?
«Sacchi, sicuramente. Ma io vi dico, anche se in pochi se ne ricordano, che il primo a proporre il pressing e la zona a tutto campo era stato Orrico. Sacchi ha perfezionato le sue idee aggiungendo un elemento nuovo al calcio: la professionalità, la disciplina».

Reja, classe ‘45, come ha saputo adeguarsi ai tempi dei tablet e di Whatsapp?
(ride) «Studiando. Chi non si aggiorna regredisce. E io non sono uno sprovveduto, via. Sfrutto anche io le tecnologie».

A proposito, sta per partire la moviola in campo.
«Sono favorevole, purché venga usata con criterio. Gol, rigori: stop. Altrimenti ci fermiamo sempre».

Lei quando conta di fermarsi?
«Vediamo: quest’anno compirò 71 anni. Mi volevano festeggiare per i 70, ho risposto così: festeggiamo quando arrivo ai 100…».

Novecentosei panchine dalla serie D alla serie A. Ormai è obbligato a puntare quota mille.
«Sarebbe bello. Ma la cosa importante è sentire di poter ancora dare qualcosa. Finché riuscirò, andrò avanti».

E’ un peso o un orgoglio essere il più anziano tecnico d’Europa insieme con Lucescu?
«Un orgoglio enorme. Vede, quello che conta è l’entusiasmo nel lavoro quotidiano. Il calcio è la mia vita. Anche se è cambiato nel tempo, come dicevamo prima, continua a gratificarmi».

Però non le ha regalato titoli.
«Ma ho avuto tante soddisfazioni. Semmai la cosa che mi manca, e che ho sfiorato più volte con la Lazio, è stata la Champions League. Avrei voluto sentire almeno una volta quella musichetta».

Si sente vittima delle etichette? Reja non va bene per le squadre di vertice, Reja è un difensivista.
«No, le etichette sono cavolate. Guardate Ranieri in Inghilterra: sta per vincere il campionato con il Leicester, dopo aver sopportato tanto. Sono particolarmente felice per lui, che è della mia generazione: è stato bravissimo. Ma poi la differenza in campo la fanno i calciatori, non dimentichiamolo. E lo dico da allenatore».

Perché non le hanno mai dato l’occasione per vincere uno scudetto?
«Mah, forse non ho avuto abbastanza fortuna. Ma soprattutto sono arrivato tardi in serie A perdendo un paio di treni».

Quali?
«Al Brescia, ad esempio. Vincemmo il campionato di serie B ma non ero in sintonia con Corioni e me ne andai. Lo stesso è successo a Cagliari con Cellino: ho conquistato la serie A e l’ho lasciata. Questione di carattere: sono friulano, niente compromessi. E mi vado bene».

Perché il Friuli è terra di grande calcio? Bearzot, Reja, Capello, Zoff.
«Perché è terra di frontiera, sofferenza, anche miseria. Giocavamo a pallone scalzi, dopo la guerra. Abbiamo imparato a resistere. E a fare squadra nel senso di gruppo, di mutua assistenza. E’ la logica del “fogolar furlan”».

Dove il vino è cultura.
«Precisamente. E aggiungo: i vini sono come i calciatori. Ce ne sono di buoni, di ottimi. Poi i fuoriclasse».

Con Capello ha cementato l’amicizia a Ferrara.
«Già. La nostra giovinezza è stata lì. Abbiamo anche conosciuto le mogli, che sono amiche tra loro. Sono contento di vedere che la Spal sta per tornare in Serie B. Ho conosciuto il patron, Colombarini, e mi ha colpito per competenza e moralità».

A proposito di presidenti: ha lavorato con De Laurentiis a Napoli e Lotito alla Lazio. Chi è più difficile come interlocutore?
«Nessuno dei due. Personaggi diversi, grandi manager. Ho avuto un rapporto diretto con entrambi. Con De Laurentiis una volta arrivai quasi alle mani ma anche con Lotito ci sono stati confronti accesi».

E’ vero che consiglia ancora gli allenatori alla Lazio?
(altra risata) «Ma no, Lotito e Tare sanno bene cosa fare. E’ vero che abbiamo un rapporto ottimo. Nel 2014 ero stanco e ho preferito lasciare la Lazio ma ho aiutato la società ad apparecchiare la tavola per il mio successore, Pioli. De Vrij lo prendemmo a gennaio».

Ora Lotito ha scelto Simone Inzaghi.
«E’ un ragazzo umile, capace. In più conosce l’ambiente. Non sarei sorpreso se rimanesse anche nella prossima stagione».

Reja il decano non smette. A Totti cosa consiglia?
«Difficile esprimersi. Capisco però cosa stia passando, perché ricordo quando ho smesso io di giocare. Vorresti fare delle cose ma devi misurarti con il tuo fisico».

Dopo tre derby vinti contro la sua Lazio, Totti disse: il prossimo uomo derby sarà Reja.
«Ha avuto ragione, perché poi ne ho vinti due di fila io. C’è ancora a Formello una targa commemorativa di quella stagione».

Era la Lazio di un altro vecchietto, Miroslav Klose.

«Un professionista incredibile. Sa cosa faceva prima delle partite? Studiava al video i difensori che dovevano marcarlo, per capirne i punti deboli. Lavorava con la stessa intensità in partita e in allenamento. Se solo Cristiano Doni avesse avuto la sua “coccia”…».

Doni?
«Sì, un grande calciatore che ha avuto meno di quanto avrebbe potuto ottenere. Il più forte che io abbia allenato. In un certo senso meglio di Pirlo, che però io ho conosciuto quando era molto giovane. Doni aveva il motore di una Ferrari».

Ferrari, Formula 1. Torna in mente la sua amicizia con Ayrton Senna.
«Ci presentò Gino Pilota, un grande personaggio, alla Benetton. Ayrton veniva a trovarmi a Pescara, ci allenavamo insieme correndo i diecimila: io però mi arrendevo a metà strada… Ero con lui a cena a Imola la sera prima di quel Gran Premio. Era preoccupato perché la sua macchina non andava».

E il giorno dopo, il primo maggio 1994?
«Un dolore enorme. Allenavo il Bologna, giocavamo con la Triestina: sul pullman seppi dell’incidente. Da quel momento la testa andava da un’altra parte. Ogni due minuti chiedevo di Ayrton. Quando mi dissero che non ce l’aveva fatta, provai solo disperazione. Il Bologna aveva vinto 2-0 ma era impossibile sorridere».

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