Corriere della Sera – Una guerra per bande Questo è il calcio italiano

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La guerra per bande in atto nella Lega Pro, che ha portato alla registrazione della telefonata fra Lotito e Iodice (in attesa dell’assemblea di lunedì), ha reso di pubblico dominio che il presidente della Lazio ha di fatto commissariato la Figc. E da anni. «Il calcio deve cambiare», ha scritto su Twitter il sottosegretario alla presidenza del consiglio, Graziano Delrio. Già sentito cento volte. L’occasione per cambiare c’era stata, quando a giugno Abete si era dimesso per la felicità del presidente del Coni, Malagò, che gli aveva fatto la guerra per un anno. Al punto da sostenere, anche se in forma indiretta, la candidatura di Tavecchio, a condizione che «non avesse cambiali da pagare». L’unica cambiale pagata è stata l’assunzione di Uva, che ha lasciato la Coni servizi. Malagò ha spiegato che «fermo restando il metodo scorretto utilizzato per portare alla luce un colloquio privato, le parole espresse da Lotito sono state incaute e rischiano di gettare discredito sul mondo del calcio anche in funzione delle cariche istituzionali da lui ricoperte». Se è per questo sono state incaute anche le parole e le opere di Tavecchio in questi sei mesi da presidente: da «Optì Pobà» alle 20.000 copie del libro scritto dal presidente e acquistati dalla Figc (107.000 euro pagati) è stato tutto un susseguirsi di episodi incredibili. Altrove Tavecchio non sarebbe mai diventato presidente o sarebbe già stato costretto a dimettersi. Invece è arrivato a guidare la Figc, grazie alla campagna elettorale organizzata da Lotito, che ha lavorato anche per chiudere il contratto fra Figc e Conte. Un moto perpetuo. Ieri Tavecchio ha preso le distanze dal suo «sponsor»: «La Figc è garante della regolarità dei campionati; i passaggi di categoria sono decisi dai risultati del campo e solo da quelli, non ci possono essere e non ci sono calcoli di convenienza di alcun tipo. Altre considerazioni sono inaccettabili». Il migliore in campo rimane il presidente della Lega di A, non a caso definito Maurizio «dimmi Claudio» Beretta, che sta in Lega dal 2009, perché come ha spiegato Lotito, «conta zero». Quello che c’era prima, Matarrese, ogni tanto alzava la voce e l’hanno congedato. Beretta continua a mantenere il doppio incarico (alto dirigente di Unicredit); di fronte a qualsiasi problema spiega che «è una questione di merito e di metodo»; si era fatto eleggere promettendo l’approvazione della legge sugli stadi a tempo di record. L’unico obiettivo centrato è stato affidare a Infront la vendita dei diritti tv e poco importa se gli stadi sono sempre più vuoti. Ieri ha ammesso di non contare nulla: «Come previsto dal nostro statuto, le deleghe sono tutte dell’assemblea e il presidente è il garante e il rappresentante verso l’esterno, ma il potere decisionale è di assoluta pertinenza dell’assemblea». Lo stipendio no. E ha confermato che «è escluso un campionato a 18 squadre con tre retrocessioni». I presidenti vogliono una sola retrocessione diretta (avanti con il calcioscommesse) e lui ha già opposto un fiero e sdegnato sì. Indignato il presidente della B, Abodi: «Da noi sale e scende chi merita, la storia del nostro campionato, anche recente, lo dimostra. Abbiamo dimostrato che si può essere «grandi» a prescindere dalle dimensioni, perché conta il merito, conta il progetto sportivo, contano le persone». Abodi era stato il primo a sostenere Tavecchio (e Lotito) nel post Opti Pobà. Come ha riassunto il presidente della Lega Pro, Macalli, che non vuol sapere di lasciare dopo 18 anni, «che schifo». Questo è il calcio italiano.

Corriere della Sera – F. Monti

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