Piscitella: “Luis Enrique è un grandissimo allenatore, gli serviva più tempo. Non porterò mai rancore alla Roma”

AS Roma Match Program (F.Viola) – A lui una partita con l’Inter gli ha cambiato la vita. Per sempre e inevitabilmente. È il 5 febbraio 2012, all’Olimpico si gioca Roma-Inter. Un match stradominato dai giallorossi, finito 4-0. Al 33’ della ripresa, quando il risultato è sul 3-0, Giammario Piscitella entra al posto di Fabio Borini e fa il suo esordio in Serie A. Piscitella non ha ancora 19 anni. È un classe 1993, è uno dei giovani più interessanti della Primavera campione d’Italia di Alberto De Rossi. Fa parte della nidiata dei Viviani, Florenzi, Politano, Antei. Il tecnico Luis Enrique lo premia e gli fa assaggiare il calcio dei grandi. E il suo debutto non è affatto banale. Non solo per un mero fatto statistico.

La ricorda quella prima volta?
Come dimenticarla? Giocai un quarto d’ora e feci anche un assist a Bojan per il quarto gol nostro. Ricordo perfettamente l’azione. Mi diede palla Josè Angel sulla fascia sinistra, io puntai Javier Zanetti – non uno qualsiasi –, poi crossai in mezzo per Bojan e lui fu bravissimo prima a controllare la palla, poi a liberarsi tra i difensori dell’Inter, infine a battere Julio Cesar con un diagonale. I ragazzi mi abbracciarono, De Rossi su tutti che mi coinvolse nell’esultanza con i compagni. Era l’Inter di Ranieri, pensate le cose come cambiano…

Se lo sarebbe aspettato o quel debutto fu una sorpresa anche per lei?
Fu tutto inaspettato e bello. Io iniziai ad allenarmi con la squadra una settimana prima di quella partita. E già quel traguardo mi sembrava grandissimo, di poter apprendere da certi campioni. Il resto successe ancora più velocemente. Quei giorni furono incredibili, una settimana da Dio. In partita fummo bravi a portare il risultato dalla parte nostra, così che un giovane come me potesse entrare in campo. Andò bene e Luis Enrique mi schierò dal primo minuto nella partita successiva di Catania.

È grato a Luis Enrique, pare di capire…
Gli devo tutto. È un grandissimo allenatore e un uomo straordinario. Lo sento ancora oggi, gli scrivo per la ricorrenza delle feste e in qualche altra occasione. Gli mandai i miei complimenti dopo che fece il triplete con il Barcellona, battendo la Juventus in finale di Champions League. A Roma ha provato a portare un certo tipo di lavoro, però…

Però?
Non era semplice trapiantare una tale metodologia di calcio in poco tempo e ottenere subito i risultati. Gli serviva tempo. Si sa, Roma non è una piazza facile in questo senso. I giornali, le radio, i tifosi sui social: ognuno esprime una sua opinione e il rumore intorno alla squadra viene amplificato. Ad un certo punto, decise di andarsene e, in qualche modo, ne risentii anche la mia carriera.

La sua carriera?
Sì, esattamente. Io rinnovai il contratto di cinque anni per lui, perché aveva fiducia in me e io fiducia in lui. Avrei continuato a lavorarci volentieri, però non fu possibile e io la stagione successiva mi trovai costretto ad andare a giocare altrove. Il mio cartellino fu dato in comproprietà al Genoa nell’ambito dell’affare Destro. Fu un fulmine a ciel sereno, non me lo sarei aspettato.

Rammaricato per non aver avuto possibilità nella Roma?
È normale averne, tutti vorrebbero giocare in una squadra così, almeno partendo dal ritiro e poi vedere cosa accade nel corso della stagione. Io non ho avuto questa possibilità, ma non fa niente. Non porterò mai rancore ad una società che mi ha dato tutto, mi ha fatto crescere come uomo e formato come calciatore.

Arrivò a Trigoria all’età di 12 anni…
Già, non fu facile andare via da casa così presto. Io giocavo all’Empoli, a mezzora da dove abitavo. Stavo praticamente tutto il giorno a casa, i miei genitori sono entrambi pasticcieri e io passavo le giornate con loro. Da un momento all’altro non mi videro più e per loro non fu facile accettare questa situazione. Così come non lo fu per me. Mi chiudevo in bagno a piangere, ma non glielo feci mai vedere. Era un’occasione troppo importante per la mia carriera, non si poteva rifiutare.

Chi la portò in giallorosso?
Bruno Conti, che mi vide nella finale di un torneo tra Empoli e Roma. Sarò sempre grato a Bruno, per me è stato una figura importantissima. Così come ringrazierò a vita la Roma, per il sottoscritto ha rappresentato davvero una seconda famiglia.

Oggi è al Carpi, come vanno le cose?
La situazione di classifica non è semplice, questo è sotto gli occhi di tutti (il Carpi è penultimo in Serie B, ndr). Per me questa chiamata rappresenta una possibilità importante. Voglio fare il massimo e dimostrare di poter stare in questa categoria e magari fare anche di più. Gli anni successivi alla Roma non sono stati semplici per me, ho girato tanto e non ho avuto fortuna tra infortuni e qualche mio comportamento non sempre corretto.

A cosa allude?
Dopo l’esordio, mi sono trovato a gestire una situazione forse più grande di me. Il fatto di non poter continuare a giocare nel calcio in cui avevo esordito ha rappresentato per me una sorta di fallimento. Ma non deve essere così. Adesso ho capito che per ottenere risultati in questo sport bisogna soltanto lavorare. Lavorare e lavorare. Oggi sono al Carpi e ho avuto la possibilità di rimettermi in gioco alla grande. Non penso ad altro, voglio riprendermi il terreno perduto.

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