Perotti: “Totti è il re di Roma. Nel 2014 ho pensato di smettere. Spalletti ha tirato fuori il meglio dal gruppo”

Diego Perotti, attaccante della Roma, ha rilasciato una lunga intervista al sito francese sofoot.com. Queste le sue parole:

Tuo padre, Hugo, ha segnato la storia del Boca Juniors con il quale ha vinto la Coppa Libertadores nel 1978. Ti ricordi come ti ha parlato del calcio?
Quando ero un bambino, mi ha parlato molto di come era lui in passato. Fu costretto a porre fine alla sua carriera quando aveva solo 26 anni a causa di numerosi infortuni, ma ha vinto molti trofei in Argentina con il Boca. Mi ha detto del suo ultimo anno con Maradona, i suoi pochi momenti in nazionale… E’ così che è nato il mio amore per il calcio.

E per il Boca giusto?
Naturalmente, e ho avuto l’onore di giocare alla Bombonera. Ho giocato sei mesi per il Boca nel 2014, è stato incredibile. Nella mia carriera ho giocato in molti stadi, il Bernabeu, al Nou Camp, Old Trafford, all’Olimpico ora, ma la Bombonera è diversa. Anche quando si è in panchina, sei felice perché vedi queste facce, senti canzoni che non si fermano mai… Voglio che tutti sappiano che questa sensazione è particolare per un giocatore.

Hai iniziato a giocare a calcio nel Boca, è stato difficile essere il figlio di Hugo?
Inevitabilmente, quando si arriva in questo ambiente hai dieci, dodici anni, tutti pensano che sei lì grazie a ciò che ha fatto tuo padre. Dovevo dimostrare ogni giorno che avevo le qualità per stare al Boca. E’ difficile per un bambino, così ho lasciato il Boca per unirmi al Deportivo Morón che era in seconda divisione argentina. E’ stato più facile per me, nessuno mi conosceva e ho trovato la libertà che volevo.

Le persone della tua età erano dure con voi?
Sai, in questo momento della vita i giovani sono più o meno in competizione tra di loro. E’ un momento difficile. Ogni anno, si è tra 1000 e 2000 i bambini che vengono a fare i test per giocare nel Boca. E’ una battaglia, e la maggior parte dei giovani che sono lì provengono dai quartieri poveri di Buenos Aires. Vengono con la volontà di salvare le loro famiglie con il calcio. Non ero preparato per questa atmosfera.

Hai sognato di giocare in Europa?
In realtà per lo più ho sognato di giocare a calcio. Non ho pensato a tutto ciò che poteva accadere dopo. Quando ho iniziato a giocare con il Deportivo Morón, in seconda divisione, avevo già raggiunto il mio sogno. Tutto ciò che poteva accadere poi non era un sogno, io non pensavo a Spagna, Italia, Europa…

Prima di firmare per il Siviglia nel 2007, hai incontrato i dirigenti dell’Atalanta. Ti interessava il calcio italiano in quel momento?
Diciamo che quando ero più giovane ho guardato molto il calcio italiano. Mi ricordo di alcune partite tra Lazio e Roma, con le tifoserie abbastanza vicine alla cultura di quelli argentini… La mia scelta di andare al Siviglia era per lo più in relazione alla lingua in realtà. Avevo diciotto anni, ho dovuto prepararmi per vivere da solo, aveva già parlato di Siviglia, e alla fine ho deciso di andare lì.

Sei arrivato in Spagna con tua madre. E’ stato difficile cambiare la tua vita?
Ho sempre avuto il desiderio di vivere da solo. Non so perché ma è sempre stato in me. Mia madre rimase con me a Siviglia per tre mesi, perché dopo finì il suo permesso di soggiorno. Stavo giocando con il club giovanile, sono arrivato con un amico argentino che era come mio padre, sua moglie mi ha dato da mangiare, spesso mi invitava a cena, quindi l’adattamento è stato più facile. Siviglia è senza dubbio una delle città più belle che abbia mai visto in vita mia. Ho trascorso lì sette anni anche se, ovviamente, mi mancava la mia famiglia e anche i miei amici.

In Argentina avevi iniziato a studiare psicologia…
Sì, ma sono stato costretto a fermarmi dopo due o tre mesi, perché dovevo andare a vivere a Siviglia. Al mio arrivo in Spagna ho iniziato un corso di criminologia. Il club giocava in Champions League, ero diventato internazionale e ho cominciato a sentire una strana sensazione: gli altri studenti mi guardavano di traverso perché ero un calciatore… Siviglia è una città abbastanza piccola, non è come Roma dove avrei potuto andare all’università e non essere riconosciuto da tutti. Lì l’università era a poche centinaia di metri da casa mia.

E’ stato difficile da accettare?
Non proprio perché sapevo che non potevo far combaciare gli studi e il calcio per tutta la mia carriera. Nel corso del tempo ho perso la passione. Oggi non posso sistemarmi dietro ad un tavolo con dei documenti per tre o quattro ore, ho avuto tempo da giovane ma ora non ne ho.

A Siviglia ti sei infortunato spesso e alcune persone ti hanno buttato giù. Hanno detto che eri un animale da festa…
Si deve vivere questa situazione per capire. Quando sei infortunato tre o quattro volte al ginocchio, e devi essere operato, sei sfortunato. In caso contrario, sei colpevole. Un esempio: quando si dispone di un infortunio muscolare, è perché si beve troppo alcol, si dispone di uno stile di vita sporco, non vai mai a dormire… In quel momento, avevo un po’ più di venti anni e hanno detto che ero un animale da festa. Sai cosa, ero solo in casa, stavo mangiando da solo e in effetti, a causa della mia condizione fisica, non ho visto nessuno. Il mio obiettivo era quello di lavorare per essere in grado di tornare a giocare e dopo ho sentito tutte le bugie. Questo è qualcosa che ti uccide. In questi casi è necessario stare in silenzio e lavorare perché non si può impedire alla gente di dire qualsiasi cosa.

Soprattutto la stampa?
E’ sempre complicato, soprattutto quando si è in un piccolo paese dove tutti si conoscono e amano il calcio. Se non si gioca, non si è al ristorante con il resto del gruppo, non si può parlare. Dal momento che io gioco, agisco professionalmente perché amo questo lavoro. Sì, per me è lavoro. Così quando sento la gente che dice, “Perotti si infortuna perché lui esce e rientra tutte le sere cotto“, voglio ribellarmi, è normale. Si deve sapere che io odio l’alcol eh. Ma bisogna mantenere la calma.

Hai davvero pensato di smettere?
Sono tornato in Argentina per giocare per il Boca nel 2014 e mi sono fatto di nuovo male. Lì, ho iniziato a pensare di smettere. E’ stata una cosa impossibile per me, ho chiamato mia madre, sono andato a casa e le ho detto che non potevo continuare. Non potevo continuare a guardare i miei compagni, la mia squadra vincere senza di me… Ero stanco di questi infortuni, stanco mentalmente e fisicamente. La mia testa mi diceva di smettere. Mia mamma mi ha detto, “Va bene, se vuoi rinunciare, ti sostengo“. Ho parlato con il mio agente e avevo un contratto da onorare con il Siviglia. Sono dovuto andare fino in fondo e poi è arrivato il Genoa.

Ai tempi del Genoa con Gasperini qual è stato il tuo segreto per non smettere di giocare?
La salvezza se la si desidera non è un qualcosa di concreto. Si tratta piuttosto di un insieme. Sono arrivato a Genova, in un paese dove non conoscevo bene la lingua, quindi non ho potuto esprimere i miei sentimenti e ho messo la mia fiducia nel mister. Ho scoperto una nuova squadra, nuovi giocatori, nuova città e Gasperini mi ha preso nelle sue mani. Mi ha fatto lavorare, così ha portato il mio fisico a lavorare al 150%. E’ come se avesse premuto il tasto ripristino della mia mente e del mio corpo.

Tra di voi c’erano anche delle conversazioni?
Sì, ma non è stato tanto quello che mi aspettavo in realtà. Finora avevo visto così tanti medici che mi avevano detto che il recupero stava andando bene, stavo per tornare. Ma probabilmente era la cosa peggiore che potevo sentirmi dire. Non avevo bisogno di una diagnosi, volevo solo risposte ai miei problemi. Non ho mai avuto risposte e mi sono detto: “Va bene, tutto è normale, ma non riesco a giocare più di dieci partite?“. E a Genova mi sono allenato molto, forse troppo. Ho incontrato un preparatore atletico che considero un angelo. Semplicemente perché sapeva quello che mi serviva: abbiamo lavorato per consolidare il mio corpo, le mie gambe. Mi ero messo in testa di lavorare duro. Quando sono arrivato in Italia ho avuto un problema al polpaccio. Il medico mi ha detto di allenarmi per una settimana, per vedere se il dolore persisteva e poi mi avrebbe visto. Lunedì, mi ero sbagliato. Martedì, stessa cosa. Mercoledì, un po’ meglio, ma ancora niente. Giovedì, non c’era più il dolore. E ho giocato il sabato successivo, poi non mi sono più fermato.

La mente è stata fondamentale?
Assolutamente, è stata la chiave. In Italia ho imparato a sopportare il dolore e a superarlo. Soprattutto quando mi infortunavo e non guarivo, questo aspetto è stato fondamentale per questo.

In questa stagione Luciano Spalletti come ha lavorato con voi?
Da quando sono arrivato in Italia, i miei problemi di infortuni sono scomparsi. Guarda, in questa stagione, ho giocato più di quattro partite consecutive con la Roma. Il mister ha inevitabilmente avuto un ruolo nel mio successo perché parlava molto e aveva sempre questa capacità di elevare il suo gruppo alla sua capacità massima. Con Spalletti non ti può riposare su i tuoi successi, è vietato, altrimenti non si gioca.

Ma a volte sorridi anche tu?
Non tanto (ride, ndr). Ma io non sono un ragazzo che sorride molto nella vita. Nonostante ciò mi impegno, e l’allenatore lo sa, ad avere un buon rapporto con i miei compagni di squadra. I ragazzi sono la mia seconda famiglia: mangiamo e dormiamo insieme, insieme si vince.

E’ stato difficile vedere Francesco Totti in panchina in questa stagione?
Ovviamente è stato difficile. Con un paio di mesi a Roma ho capito subito che cosa rappresenta per questa città e per questi tifosi. Capire che la partita contro il Genoa è stata la sua ultima partita non era facile da accettare. Lui è una leggenda, un punto di riferimento, un modello per un giocatore come me che ha ancora molto da dimostrare. Per tutti, Francesco è il re di Roma. Bisogna rendersi conto che ha giocato tutta la sua vita in un club in questo calcio moderno.

A livello personale questa stagione come è stata? Contro il Viktoria Plzen nel mese di novembre hai fatto un gol di rabona, che cosa ti passava per la testa?
Ho sempre voluto un giorno fare un assist o segnare con un tiro di rabona. Ma quel giorno non volevo segnare, volevo mettere il pallone al centro. Il mio colpo è stato deviato ed ha cambiato traiettoria. Alcuni parlavano di un autogol, ma non è vero, è mio (ride ndr).

Ti senti gratificato lo stesso quando segni o fai un assist?
Francamente, preferisco fare asssist. Mi piace segnare ma preferisco fare assist, è sempre stato così e le mie statistiche lo dimostrano. Proprio in questa stagione ho segnato nove gol. Il mio compito era quello di servire Edin. E’ un ragazzo importante, anche al di là dei suoi obiettivi personali. Sul campo è un piacere giocare con lui perché è un punto di riferimento in attacco, può fare da tramite per continuare l’azione. L’anno scorso è stato più complicato per lui, ma quest’anno con più fiducia ha contribuito a cambiare la mentalità della squadra.

Secondo te alla Roma cos’è mancato per vincere qualcosa in questa stagione?
In questa stagione per me non abbiamo perso soltanto un titolo, ma moti di più. Non dimenticherò l’Europa League. Avevamo i mezzi per vincere in questa competizione, così come in Coppa Italia dove siamo stati eliminati dalla Lazio. La Roma è moto più forte rispetto allo scorso anno, ma il calcio è deciso dai dettagli.

Jorge Sampaoli è stato nominato nuovo allenatore della nazionale argentina e tu non sei stato convocato per le prossime due partite contro Brasile e Singapore. Cosa sai di lui?
Ho sentito cose importanti su di lui perché era a Siviglia in questa stagione. Ho parlato con alcuni amici che sono ancora in quel club. I suoi risultati adesso parlano per lui, vedremo. L’Argentina aveva bisogno di un cambiamento. Il paese sta attraversando un periodo difficile con il suo calcio. La sua missione non è semplice, perché se vogliamo andare in Russia…

Ma qual è il vero problema dell’Argentina?
Vorrei poterlo spiegare, ma non lo so. Sulla carta a livello di singoli giocatori è sicuramente una delle squadre con più qualità del mondo con il miglior giocatore del mondo (Messi ndr). Ma quando si arriva sul campo, tutto cambia. E’ lo stesso per tutti, ma per qualcuno che gioca a Barcellona o a Parigi è difficile incontrarsi e giocare in Perù o in Bolivia con l’altitudine. Questo è uno dei motivi che può spiegare alcuni di questi problemi. Dopo se si guarda indietro, c’è stata la finale del Mondiale nel 2014, due finali di Copa America consecutive: questo vuol dire che qualche talento c’è.

Il tuo sogno è quello di tornare in Argentina per chiudere la carriera?
Per il momento ho ancora tante cose da vincere in Europa, ma sicuramente un giorno voglio andare in Argentina. Ho una forma di debito con il Boca. Ci ho trascorso sei mesi, non ho davvero giocato a causa del mio infortunio, quindi mi piacerebbe cambiare l’immagine che ho lasciato lì.

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