Corriere dello Sport – Montella: “Lucho è bravo, giusto dargli tempo”

Vincenzo Montella non è mai banale.E’ un abile e arguto comunicatore, anche se fa attenzione a evitare la sovraesposizione. E’ il più giovane allenatore della serie A, a 37 anni. Lo scorso anno gli affidarono la Roma, che portò a sfiorare la Champions League. In estate i nuovi dirigenti gli hanno preferito Luis Enrique.

Montella con il suo Catania, che ha come obiettivo la salvezza, oggi ha gli stessi punti della Roma. Ha battuto Inter e Napoli, fermato Juve e Lazio. Non cerca vendette, è felice della scelta che ha fatto, il Catania di Pulvirenti e Lo Monaco che si è dato una struttura di società organizzata, è la sua dimensione ideale…

A che punto è il progetto di Montella allenatore?
«Una delle cose che ho imparato è che non si finisce mai il percorso. Sono all’inizio, teoricamente le cose le conosco. Bisogna metterle in pratica».

Dopo un’esperienza alla Roma, adesso il Catania: Montella è un attaccante anche come allenatore?
Sorride . «Bella domanda… Bisogna riuscire a dare equilibrio alla squadra e anche come figura che ricopri, gli umori incidono. Certo, mi piacerebbe sempre avere il pallino del gioco».
Rimpianti per aver lasciato la Roma?
«No. Perché credo che sarebbe stata una scelta sbagliata, non avrei detto di no, ma ai dirigenti chiesi di non mettermi in imbarazzo, perché avrei detto di sì, ma in una piazza così è difficile perdonare le false partenze a un allenatore giovane».
Ma a Luis Enrique, giovane come lei, è stato perdonato l’inizio di stagione.
«Sono contento per lui, bisogna dare tempo a un tecnico. E a un allenatore che viene da un ambiente diverso, viene dato più tempo rispetto a uno che viene dalla stessa realtà».
Lei non avrebbe avuto lo stesso tempo?
«Probabilmente no, perché forse ci sarebbe stato scetticismo all’inizio».
Anche la società alla fine ha preferito percorrere un’altra strada. Secondo lei, cosa cercavano?
«Hanno scelto un nuovo corso, scegliendo un allenatore che non fosse contaminato.”
E magari legato a qualche giocatore.
«No, direi al calcio italiano, volevano un uomo totalmente esterno, mi sembra molto comprensibile».
Per dare una segnale di discontinuità, hanno detto.
«Direi di incontaminazione».
Il fatto che alcuni giocatori si schierarono per lei le ha nuociuto?
«Quando ho letto le dichiarazioni dai giornali ho sorriso… Io ho avuto massima disponibilità da loro, si sono rapportati con me da calciatori e non da ex compagni. Io stesso ho cercato di tenere le distanze nel rispetto dei ruoli».
Dunque Totti le dava del lei?
«Non è quello che fa la differenza. E comunque mi dava del tu…».
Un giorno tornerà ad allenare la Roma?
Distende le gambe sotto il tavolo e sospira «Il mio obiettivo è crescere come allenatore, devo pensare a tenere il posto, visto che ogni anno cambiano 12-15 allenatori…».
Come è nata l’ipotesi Catania?
«Ci siamo confrontati a fine stagione con Lo Monaco e il presidente Pulvirenti, non li conoscevo. Abbiamo parlato dieci ore di calcio, ci siamo piaciuti».
Ripensando agli allenatori che lei ha avuto come calciatore, indichi la qualità di ognuno.
«L’equilibrio di  Erìksson, la simpatia di Boskov, la gestione di Capello, la passione di Spalletti».
Chi di questi le ha fatto innamorare del lavoro di allenatore?
«I ragazzini che ho allenato».
Da Voeller a Conti, da Spalletti a Ranieri, molti si sono dimessi. Qualcuno dice che Roma e la Roma mettono…
«Mai visto uno giocare contro l’allenatore, un giocatore ha soprattutto amor proprio, chiamatelo egoismo, che lo porta a dare il meglio. Roma, se non sei equilibrato ti consuma, per quanto è passionale, per quanto la gente è coinvolta».
Ha giocato al fianco di Mancini. Mai pensato che sarebbe diventato un grande allenatore?
«Sì, in realtà faceva l’allenatore già da calciatore…».
Totti potrebbe diventarlo?
«Non credo ne abbia voglia. Bisogna avere una vocazione a insegnare, non credo che Francesco abbia intenzione di percorrere questa strada, è più distaccato, è più timido anche se non sembra».
Menez ha ritrovato la sua dimensione in Francia. Con lei, a Roma, ha sofferto.
«E’ una leggenda. L’ho fatto giocare anche quando la piazza lo contestava. E’ andato a volte in panchina come ci è andato Totti. Jeremy probabilmente aveva già deciso di cambiare aria».
Borriello?
«Avevo scelto lui all’inizio, poi Totti è cresciuto e ha giocato Francesco».
Lei alla Roma aveva riportato Totti a fare la prima punta. La stupisce il fatto che quest’anno si sia riallontanato dalla porta?
«Lui può giocare dieci-venti metri indietro, avanti, tutto gira in base a quello che l’allenatore chiede agli altri giocatori, mi sembra che prima di infortunarsi stesse giocando alla grande».
Il Montella giocatore forse ha avuto meno di quello che poteva avere, anche in nazionale.
«C’erano sette otto giocatori di altissimo livello, poi sono orgoglioso di quello che sono riuscito a fare, nonostante tredici-quattordici operazioni, la prima già a 17 anni. Credo di aver fatto il massimo».
Con la generazione di oggi, Montella giocherebbe in Nazionale?
«Io ero in un periodo in cui i piccoletti non andavano molto, mentre ora vedo che sono tornati di moda».
C’è una spiegazione tattica.
«Direi di sì. Ora si cerca di più lo spettacolo e servono piccoletti rapidi».
Di Natale non è da Nazionale?
«Sta facendo cose straordinarie».
E’ quello che le somiglia di più?
«Non so, forse Rossi».
Da allenatore che formazione farebbe con i compagni che ha avuto da calciatore?Montella si gratta il naso, tra il divertito e il preoccupato.
«Non ho molta memoria».
Portiere…
«Ho avuto Ferron… diciamo Antonioli, sì, Antonioli».
Terzini
«Cafu e Candela».
Centrali «Samuel, Aldair, beh, anche Mihajlovic non era male. Giochiamo a tre, dai…».
A centrocampo «De Rossi e Veron. Poi Totti e Mancini due mezze punte, Montella in avanti. Uhm, mi sembra un po’ sbilanciata. Sarebbero contente le altre squadre».
Fatto fuori Batistuta.«Allora mettiamolo».
E allenatore? «Se c’è Batistuta, allora io faccio l’allenatore. Altrimenti, Eriksson».
Il suo Catania ha affrontato Milan, Juve, Inter, Lazio, Napoli. Quale squadra la ha impressionato di più?
«Il Milan. La Juve comincia a essere una squadra da battere, il Napoli ha giocatori straordinari, in grado di lottare fino in fondo per lo scudetto» (…)
Le è mai venuto il dubbio di aver smesso troppo presto, chiudendo a 35 anni?
«Non avevo voglia di andare via da Roma, ma nemmeno di arrivare al campo per allenarmi sapendo di non giocare, diciamo che ero stanco di arrivare incavolato».
Come le è successo con Capello
«Ma ero più giovane».
Gioca ancora qualche partitella?
«No, perché può essere pericoloso…».
Lei ha avvertito all’inizio un po’ di diffidenza a Catania, forse per quel 7-0 di Roma-Catania?
«Diffidenza più perché non avevo mai allenato. Ma poi, sì, un po’ anche per quella partita».
Ritiene ancora che fosse giusto continuare a giocare?
«Ma se fai possesso palla, gli avversari si arrabbiano, poi se loro segnano allora è la tua difesa a non essere contenta. Se poi entrano due giocatori che muoiono dalla voglia di far gol e uno di loro sono io… all’estero ti dicono che non è un disonore giocare fino in fondo».
Da allenatore direbbe alla squadra di rallentare?
«Non è facile esporsi in questo senso con giocatori, non è educativo, non dai un bel segnale».
A proposito di rapporti tra allenatore e tecnico: se un giocatore chiamato a entrare in campo la mandasse a quel paese platealmente, come lei fece con Capello in Napoli-Roma, come si comporterebbe?
«Anche se mio padre mi rimproverò perché non ero stato educato, avevo ragione perché tanti particolari non si conoscono…».
Che cosa successe?
«Alla fine del primo tempo Capello mi aveva detto di entrare, e mi ero cominciato a scaldare. Poi non mi ha fatto entrare e all’inizio della ripresa mi ha detto di scaldarmi ancora… sono arrivato al quarantesimo, avevo corso per cinquantacinque minuti. Insomma, non puoi prendere in giro una persona».
Cosa ha pensato quando lo vide presentarsi pochi giorni dopo, il 17 giugno a casa sua, alla festa del suo compleanno, che poi è anche il suo?
«Se avessi risposto io al citofono gli avrei detto di farsi prima un bel giro dell’isolato prima di farlo entrare, ma a parte gli scherzi… il fatto che fosse venuto era un modo per scusarsi. Con gli anni ci abbiamo giocato sopra».
Ma cosa gli aveva fatto cambiare idea?
«Niente, forse già pensava di festeggiare lo scudetto, a cosa avrebbe dovuto fare, stavamo vincendo e poi il Napoli pareggiò negli ultimi minuti».
La Roma di allora vincerebbe lo scudetto oggi? «Probabilmente sì, era una grande squadra».
Da allenatore come le è cambiata la vita? Meno autografi?
«Più o meno è uguale, forse perché mi vedono ancora calciatore. La visibilità è la stessa, forse più che da calciatore, un tecnico fa più interviste che allenamenti…».
Quando ha saputo che il direttore generale della nuova Roma potesse essere Baldini, ha pensato a un vantaggio o no?
«Ho pensato solo che sarebbe tornata a Roma una persona equilibrata. Con lui ho avuto dei problemi all’inizio, ma negli ultimi tempi ho avuto buoni rapporti, c’è stima reciproca».
Questa Roma può lottare per il primo posto?
«E’ un campionato strano, al momento mi sembra che ci siano squadre più continue».
Come valore della rosa?
«Ha giocatori importanti che dovranno adattarsi al nostro campionato, ma la qualità sicuramente c’è».
Quando verrà all’Olimpico..
«Da allenatore, è la penultima, speriamo. Vuol dire che sono rimasto al mio posto. In questo caso sarebbe l’occasione per festeggiare».
Si aspetta che ci sia riconoscenza da parte dei tifosi?
«A Roma mi dimostrano continuamente di apprezzare quello che ho fatto».
C’è un allenatore che vorrebbe conoscere meglio, che la intriga?
«Luis Enrique».
Davvero?
«Sul serio: mi piacerebbe vedere come allena, cosa dice ai giocatori. Ho visto qualcosa di nuovo nella Roma. Soprattutto nelle prime partite».
Pensava che Perrotta e Taddei avrebbero fatto l terzini e che De Rossi sarebbe finito davanti alla difesa, quasi a fare il difensore centrale…
«Io De Rossi volevo farlo giocare così l’anno scorso, con una difesa a tre. A lui il ruolo piaceva».
E’ una Roma che gioca molto alta, accetta la sfida in difesa due contro due.
«E’ tipica del calcio spagnolo. Nelle giovanili lì insegnano questo, è una scelta: hai un centrocampista in più e puoi avere la partita in pugno».
Il presidente degli arbitri, Nicchi, ha detto che la sudditanza psicologica non c’è. Dopo essere stato a Roma e ora al Catania, ha notato qualche differenza di trattamento?
«Solo una volta ho perso la testa. Successe contro la Juve, protestai con il guardalinee: un fallo due metri fuori lo videro dentro l’area. Ma no, sudditanza no. Bisogna guardare il calcio e andare oltre, spiegarlo ai giovani».
Lei ha due figli
«Uno di dodici anni e una di tre».
Il primo fa il calciatore?
«E’ stato preso dalla Roma, non ci voleva andare, poi ha accettato quando me ne sono andato via io. Si diverte».
La cosa più importante.
«Fondamentale. Ora si è fermato perché ha qualche problema al ginocchio. Ma a scuola va bene e questo è quello che conta».
Mancino come lei?
«Mancino. E attaccante».
Corriere dello Sport

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