La Repubblica – Luis Enrique ai giocatori: “No a cornetti e amatriciana, alimenti troppo grassi”

Franco Baldini lo ha scelto come guida tecnica per provare a cambiare il pensiero calcistico italiano. E non ha dubbi: «È un innamorato di qualunque cosa faccia, che si impegna al massimo per raggiungere il più alto livello possibile». Non è l’unico a essersi fatto questa idea di Luis Enrique, il nome intorno a cui ruota l’orizzonte presente e futuro della nuova Roma americana. Per Joaquin Valdes, suo amico e motivatore personale nelle sfide da atleta, dalla Maratona di New York del 2005 all’Ironman di Francoforte nel 2007, Luis è «un impulsivo che lavora al massimo per non commettere errori». E pazienza se a Trigoria per molti è ancora “Zichichi”, lo scienziato: la voglia di stupire è parte del bagaglio di un tecnico che cita Coelho, ama il ciclismo (ha ricevuto in dono la maglia iridata da campione del mondo), esce poco la sera — qualche cena da Baffone, sulla Flaminia — e difficilmente deroga dalla proprie idee.

Hanno dovuto faticare i dirigenti della Roma per convincerlo a presentarsi in conferenza stampa prima di ogni partita: «A che serve parlare se non si è giocato?». Nessuna concessione, invece, sui comportamenti. Non ne ha fatte imponendo alla squadra, romani inclusi, di rinunciare alla pasta all’amatriciana: troppo grassa. Dal giorno del suo arrivo, dal bar interno di Trigoria sono spariti persino cornetti, fagottini ripieni e croissant, specialità della casa con cui i giocatori si rifocillavano dopo gli allenamenti. Al loro posto, mini confezioni di biscotti senza grassi. Niente deroghe, soprattutto nel codice etico introdotto da Luis a Roma: “Rispetto, Partecipazione, Lealtà”, i precetti della sua rivoluzione, quasi una riedizione del motto “Liberté, Égalité, Fraternité”. Chi avesse dubbi sull’applicazione, può chiedere a Osvaldo: «Se mi privo di un giocatore fondamentale per punirlo, nessuno si sentirà autorizzato a sbagliare», il pensiero confidato telefonicamente dall’allenatore a Baldini per chiedergli di avallare l’esclusione dell’argentino.

Eccezioni al decalogo non ne fa neanche per sé stesso. La scelta della casa in zona Olgiata a 40 Km da Trigoria, lo ha costretto spesso ad anticipare la sveglia alle 6, pur di non arrivare in ritardo: un po’ di corsa sotto casa, i figli accompagnati a scuola — l’istituto internazionale St. George’s School, sulla Cassia — un’ora a sudare in palestra. Poi, 45 minuti di raccordo per essere a Trigoria con un’ora e mezza — due di anticipo rispetto alla squadra e preparare sul proprio I-Pad gli allenamenti insieme allo staff. Con cui, al termine della seduta, si ferma un paio d’ore a rivedere il video del lavoro svolto e valutare i dati del monitoraggio telemetrico su fatica, resistenza, velocità. Del suo gruppo di lavoro si fida al punto che a volte sono, dalla piccionaia dell’Olimpico, il preparatore Cabanellas e il tattico Lopez (commentatore tv in Spagna) a suggerirgli una sostituzione. Chi non conosce Luis Enrique, potrebbe definirlo scaramantico: «In realtà è solo metodico, rituale». E di un rituale si è innamorato: quell’urlo che la squadra fa da anni negli spogliatoi prima di ogni gara, simile in tutto per tutto a un rito della sua terra. «Coinvolgiamo i tifosi»: così ha convinto il gruppo a spostare il rito sul campo. A conquistarli, aveva impiegato anche meno.
La Repubblica – Matteo Pinci

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