Gazzetta dello Sport – Ma Don Chisciotte un po’ ci mancherà

Se ne va. Hanno vinto i mulini a vento. Luis Enrique li ha attaccati con coraggio, ma in modo maldestro. Troppo spesso ha tenuto lo scudo basso e le pale dei mulini lo hanno agganciato per le braghe facendogli fare il giro: 14 sconfitte in campionato. Ha pagato l’inesperienza. Non tanto dell’età e della gavetta. In fondo, Montella ha quattro anni in meno e all’inizio della stagione scorsa allenava giocatori che facevano merenda dopo la doccia Giovanissimi.
Semmai l’inesperienza del nostro calcio, dove difendersi è il primo passo necessario verso la felicità, dove dietro ogni angolo c’è appostata una squadra che riparte e a non prevederlo si finisce infilzati come San Sebastiano martire. Montella in mezzo alle difese italiane ci è cresciuto, le ha studiate dall’interno e oggi sa come attrezzarne una. A Luis serviva più tempo, ma non ne ha avuto così poco e la pazienza con cui una piazza proverbialmente esigente ha atteso la lievitazione dell’Idea non ha troppi precedenti. La lievitazione non è riuscita. La torta, intrigante negli ingredienti, è rimasta schiacciata nel forno, non si è gonfiata, come invece la Juve di Conte che ha perfezionato nel tempo il suo impasto estivo. E infatti ora la Roma cerca il suo Conte, l’ex eroe di campo: Montella.
Ma mentre Luis, a cavallo di un ronzino scarno, riguadagna la Spagna, ci sentiamo di rendergli l’onore della armi: non è passato invano dalle nostre lande. Ci ha ricordato che il calcio è quella cosa allegra che corre verso il gol. Da buon apostolo, ha raccontato la parabola di Guardiola: «Alla base di tutto c’è il divertimento del passaggio. Il pallone è il giocattolo: chi lo tiene di più, gode di più». Luis un po’ ha divertito Roma. Ora che Pep e Luis hanno mollato, sconfitti, si potrebbe dedurre che l’utopia catalana è al tramonto, e il Congresso di Vienna dei Di Matteo ha rimesso sul trono difesa e contrattacco. Non è così, attenti. Nella Juve di Conte c’è più Barcellona di quello che si pensi: il potere a centrocampo, Bonucci che imposta da dietro come Mascherano, attacco di movimento che prescinde dalla punta di ruolo. E, soprattutto, l’idea di gioco: creare in ogni zona del campo, attaccare sempre con coraggio. A questo tendeva anche Luis Enrique. Avesse avuto Pirlo, probabilmente oggi sarebbe a cavallo della Roma e non di un ronzino.
Ma don Luis ci ha insegnato altro: che una squadra ha bisogno di regole e di rispetto. Pochi hanno compreso la durezza dello spagnolo nel punireOsvaldo, che ammaccò Lamela, e ancor meno, la rinuncia a De Rossi, colpevole di un piccolo ritardo. Semplice: è l’intransigenza dell’applicazione che rende forte la regola. Una piccola mancanza di rispetto, rotolando a valle, può diventare una valanga e poi magari finisce che un ragazzino offende l’allenatore che lo fa viola in panchina. Forse Luis Enrique si è sentito straniero in un calcio di curve che convocano e spogliano i capitani ed è stata una spinta in più per tornare a casa. Il sospetto forte è che, sotto questo nostro cielo di sentenze poco intransigenti e di stelle ballerine, la leggerezza ideale dell’asturiano ci mancherà.
Gazzetta dello Sport – L.Garlando 

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