Losi: “Con la città di Roma amore folgorante. Herrera ci dava delle pasticche, ma le gettavamo nella fontana”

Giacomo Losi, storico giocatore della Roma, è stato intervistato dal Corriere dello Sport ed ha parlato anche della sua carriera. Queste le sue parole:

Giacomo Losi, come ha cominciato a giocare a pallone sotto la guerra?
«Io sono del ’35 e avevo nove anni quando ho cominciato a dare i primi calci in mezzo alla strada. Facevamo le porte con gli indumenti che avevamo addosso. Mettevamo un cappellino da una parte, un maglione dall’altra della piazzetta , quelle erano le porte. E giocavamo sul selciato, perché non c’era l’asfalto, erano solo sassi. Però pur di giocare facevamo tutto, anche prendere a calci palle di pezza…».

Del conflitto che ricordo ha?
«Della guerra ho un ricordo molto brutto perché i bombardamenti erano sempre di notte. Noi eravamo piccoli, ma ricordo che un aereo alleato, lo chiamavamo “Pippo”, cercava di buttare giù i ponti. Ma non sono mai riusciti a beccarli, distrussero solo quello della ferrovia. Noi ragazzi, a Soncino, andavamo al fiume di giorno e quando sentivamo l’allarme che suonava dalla torre civica del paese scappavamo tutti nei rifugi sotto i bastioni. Aspettavamo che la paura passasse in queste grotte sotto terra».

Lei da bambino ha dato un aiuto alla Resistenza?
«Sì, io portavo le munizioni ai partigiani quando presero il possesso del paese. Prima c’erano i fascisti con i tedeschi. Però nell’ultima fase della guerra hanno conquistato il paese i partigiani, prima che arrivassero gli americani».

E ricorda le prime partite dopo il confiitto?
«Appena finita la guerra ci trovavamo, noi ragazzi, alla via Crucis che si faceva in Quaresima. C’era una specie di spiazzo, davanti alla chiesa, e noi lì abbiamo costruito una squadretta che abbiamo chiamato Virtus, pensi che immaginazione. Andavamo a sfidare i comuni vicini a Soncino, tipo Orzinuovi, Soresina. In questi paesi negli oratori c’erano i campi da calcio, tutti abbastanza piccoli. È stato lì, in quell’Italia libera e povera, che ha avuto inizio la mia passione per il calcio».

E come è arrivato alla Roma?
«A sedici anni ho iniziato a giocare nella Soncinese. Un dirigente mi ha visto in mezzo alla strada e mi ha detto “Vieni con noi ”. A sedici anni giocavo già in prima categoria. Lì è cominciata la mia carriera perché poi con la Cremonese ho militato in quarta serie, la serie D. Ho fatto due campionati lì e poi, non so come mai, mi hanno scoperto quelli della Roma. È stata una sorpresa, per me. Avevo fatto due tornei, in prestito, con i ragazzi dell’Inter, Viareggio e Sanremo. L’allenatore dei ragazzi dell’Inter era Giuanin Ferrari, un vecchio giocatore e un bravissimo mister, specie per i ragazzi. Mi prelevò dalla Cremonese per farmi fare questi tornei, perché mi voleva all’Inter. Mi aveva fatto seguire tramite osservatori e invece, non so come, sono venuto a Roma».

I suoi genitori che facevano?
«Mio papà lavorava come facchino al Consorzio Agrario, mia mamma era una filandiera, lavorava in filanda».

E si ricorda quando disse loro che la Roma l’aveva acquistata?
«Sì, e mi ricordo che è stata per mio padre una sorpresa, diciamo così, perché la Roma non sapeva neanche che esistesse, come squadra. Io conoscevo il Grande Torino e tifavo per loro. Superga è stata una tragedia, per noi tifosi. Avevo quattordici anni e fu un gran dolore. Una squadra da leggenda. Quando mi hanno comunicato di avermi ceduto alla Roma, sono rimasto di sasso. E quando ho detto “Papà: devo partire per Roma, devo prendere il treno”, lui mi ha detto “Mi raccomando” e la mamma mi ha preparato la valigetta. Mi comprarono un vestito nuovo e venni a Roma, nel ’54. Avevo diciannove anni».

E qual è il suo primo ricordo di Roma?
«Era grande, meravigliosa, piena di vita e di luce. Sono andato ad abitare in una pensione, una stanza in via Quintino Sella, indicata dalla società. Quando misi piede fuori dalla stazione rimasi folgorato. Folgorato d’amore. E, sessantatré anni dopo, sono qui, ancora qui».

Chi è stato l’allenatore migliore che ha avuto nella sua vita?
«Mah, credo Sarosi. Era un ungherese, uno dei primi allenatori che ho avuto. E’ stato lui a farmi debuttare in prima squadra. Per me è stato un maestro. Era stato un giocatore della grande Ungheria. Era veramente un uomo eccezionale ».

Il peggiore chi è stato? Immagino, ma lo dica…
«Helenio Herrera».

Mi dice della difficoltà di rapporto con lui?
«E’ stato una sorpresa, per me, Herrera. Perché io pensavo che fosse un grandissimo allenatore quando è arrivato. Capirai: abbiamo preso Herrera, ha vinto tutto con l’Inter, faremo sfracelli. Invece avevo scoperto durante la preparazione del campionato che vendeva molto fumo come allenatore. Non mi piaceva. Però aveva un grosso carisma e riusciva a conquistare la simpatia di tutti».

E’ vero che lui dava delle pillole nello spogliatoio?
«Sì, si chiamava Levoral, diceva che era una vitamina. Io non l’ho mai usata, la buttavo dovunque potevo. Noi andavamo in ritiro spesso a Grottaferrata, e lì, prima di entrare in albergo, c’era una specie di fontana. Il fondo era pieno di pasticchette che i giocatori facevano finta di prendere e poi gettavano in questa fontanella».

E chi non la prendeva non giocava?
«Lui insisteva per metterla in bocca, ma noi la tenevamo sotto la lingua e poi la sputavamo».

Ricorda la morte di Taccola?
«Purtroppo sì. Io l’ho vissuta, questa morte. Lui era parecchio che stava poco bene. Io a Cagliari quel giorno ero infortunato e non sono andato. Però ho vissuto tutta la tragedia. Quando è morto sono andato io, Herrera mi aveva già messo fuori squadra, con la famiglia a prenderlo a Cagliari per portarlo a Roma. Giuliano era un bravissimo ragazzo ed era il momento per lui di sbocciare, come centravanti. Non era partito come titolare, era riserva. Però si stava imponendo, questo ragazzo. Era bravo…».

Ma è vero che Herrera fece partire subito la squadra, di corsa?
«Sì, sì, lasciò lì questo ragazzo negli spogliatoi, durante il massaggio. Non so se si è accorto che era morto. I miei compagni mi hanno raccontato che Taccola ha fatto due sobbalzi sul lettino, disse “Sto male, sto male”, lo misero sul lettino del massaggio e lì è spirato. Herrera alla squadra choccata ha detto “Andiamo, andiamo via che c’è l’aereo che parte”. Lo ha lasciato lì».

Chi è il giocatore più forte con cui ha giocato?
«Direi Lojacono e Schiaffino, grandi giocatori. Penso che questi due fossero i migliori. Ghiggia è stato un grande. Ne ho avuti parecchi di compagni bravi…».

Ci ricorda la colletta del Sistina? Era la Rometta degli Anni Sessanta…
«La colletta del Sistina fu una pagliacciata spaventosa. Io ero contrario e mi hanno costretto ad andare sul palcoscenico, davanti ai tifosi, con il cappellino in mano a raccogliere le offerte che facevano con la colletta. Una cosa indegna da raccontare, allucinante. Noi siamo andati lì perché Lorenzo, che era l’allenatore della Roma, aveva convocato tutti al Sistina per dire che la Roma non pagava, per dire che la società non si comportava bene nei confronti dei giocatori ed era per quello che la squadra andava male. E, in effetti, non ci pagavano da mesi, perché in quel periodo non c’erano soldi».

Quella Roma lì però alla fine vinse la Coppa delle Fiere e due Coppe Italia…
«Bravo. Sono state due soddisfazioni, però le abbiamo vinte noi giocatori, non la società, che allora faceva acqua da tutte le parti. Noi eravamo convinti di potercela fare. Infatti siamo riusciti a vincere. Siamo stati la prima squadra italiana a vincere una competizione internazionale. La Coppa delle Fiere, che poi è diventata Coppa Uefa».

Come è nato il mito di Losi a Roma?
«Non lo so. Forse per il modo di giocare che avevo. Perché io non mi davo mai per vinto. Non mollavo mai l’osso. Anche se l’avversario mi saltava più volte io gli ero sempre davanti. Poi io facevo molto bene la diagonale, cioè coprivo anche i miei compagni».

Lei ha giocato in tutti i ruoli della difesa…
«Sì, terzino destro, terzino sinistro, stopper e libero. Tutti, li ho fatti».

Qual era quello che le piaceva di più?
«Lo stopper».

Oggi ci potrebbe essere uno stopper di un metro e sessantotto?
«Non lo so. Io oggi non ne vedo di questi fenomeni. Io ero una mosca rara perché ero basso ma forte di testa e in acrobazia».

Lei saltava molto, vero?
«Io quando incontravo Charles, che era alto due metri, riuscivo a prendere la palla di testa prima di lui».

Com’era Charles?
«Era eccezionale. Io l’ho avuto come avversario e come compagno. Era un ragazzo adorabile. Aveva una potenza fisica eccezionale però non era capace di fare male a nessuno. Non metteva mai la gamba per farti male, cercava anche di essere di sostegno all’avversario quando succedeva un incidente».

Una parte della leggenda di Losi è legata alla partita con la Sampdoria, quando andò all’ala e poi segnò…
«Io mi strappai all’inguine in entrata per salvare un gol sulla riga. Ma sono rimasto in campo perché allora non c’erano le sostituzioni. Per non lasciare i miei compagni soli mi sono fatto fare una puntura di novocaina, mi sono messo la fascia elastica e ho detto all’allenatore “Non preoccuparti rimango lo stesso e cerco di essere utile alla squadra”. Io con una gamba sola correvo come un matto e la gente, quel giorno, mi ha osannato».

E poi segnò di testa?
«Sì, poi sono andato avanti, all’ala. Sul 2 a 2 ci fu un calcio d’angolo da destra a sinistra. Li batteva benissimo, Lojacono: li batteva molto forte, tesi e non molto alti. Io ero al limite dell’area e la palla mi passò davanti, io, però, con il peso sulla gamba malata non riuscivo a saltare. Mi passò a un metro di distanza e se fossi stato bene l’avrei presa, perché nessuno mi marcava, gli avversari dicevano “Dove va questo qua, non sta in piedi”. Poi la palla, deviata, andò fuori dall’altra parte e Cisco Lojacono passò davanti a me per andare a calciare di nuovo il corner dall’altra parte. Gli ho detto “Francisco, battilo uguale se puoi”. Lui l’ha tirato alla stessa maniera e io sono riuscito a saltare con la gamba buona e ho fatto gol di testa. Per me è stata una cosa inimmaginabile. Fare gol in serie A in quella maniera. Poi vincemmo la partita e tutto lo stadio è crollato. Un momento meraviglioso della mia vita».

Quante volte ha giocato all’ala da infortunato?
«Quattro, cinque volte, non tante. Io non dicevo mai quando avevo qualche malanno, neanche all’allenatore. Scendevo in campo lo stesso, cercando di fare quello che potevo. Anche se avevo uno stiramento alla gamba non mollavo, perché non volevo mai uscire dal campo».

Ma Herrera la tolse di squadra per la storia delle pasticche o perché?
«Perché io molte volte contestavo negli spogliatoi quando lui faceva la tattica della squadra, dicevo “Mister, io penso che non possiamo giocare in questa maniera”. Lui ordinava: “Andiamo avanti, andiamo avanti”. Andiamo avanti va bene, però dobbiamo cercare di essere coordinati in campo sennò, se mi lasciano da solo dietro, faccio brutta figura io. Dovevo affrontare più avversari invece di uno».

Può raccontare che cosa è stata la Tevere Roma nella storia del calcio romano?
«E’ stata una squadra di importanza eccezionale per i settori giovanili. Raccoglieva i giocatori che la Roma non faceva giocare, specie giovani. Di lì sono passati Scaratti, Ginulfi, Spinosi. I dirigenti erano stati nella Roma. Si giocava al Flaminio. Lì ho concluso la mia carriera. Nella Roma B, come si poteva definire la Tevere Roma. Sempre giallorosso».

Lei è stato ammonito una sola volta in tutta la carriera… Raro, per un difensore…
«Mi ammonirono nell’ultima partita…».

Che cattiveria!
«A Verona. La mia ultima gara l’ho fatta col Verona. Il Verona giocava con due centravanti. Bui e Traspedini. Due cristoni alti uno e novanta. Io mi trovavo sempre con questi due davanti. Quando c’erano i lanci lunghi su questi due giocatori, forti di testa, io dovevo sempre anticiparli, sennò non la pigliavo mai. Mettevo giù uno, mettevo giù l’altro ogni volta che volevo fermarli. A un certo punto l’arbitro mi disse “Losi , non sa quanto mi dispiace, ma devo ammonirla”. Aveva ragione. Poi mi ha detto “Che succede oggi?”. Per tutti era una cosa strana che io facessi dei falli perché io non giocavo picchiando gli avversari, io giocavo d’anticipo, pulito».

Se lei dovesse portare su un’isola deserta una maglietta, una sola, di una partita, quale porterebbe?
«Quella della partita con la Sampdoria, dove ho fatto il gol. E’ stata un’emozione troppo grande. Fare gol da difensore. E in quella maniera, poi».

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