L’Euro Qarabag

Corriere dello Sport (R.Maida) – Il Qarabag gioca a Baku ma non è come l’Atalanta che gioca a Bergamo. Il Qarabag non è di Baku, la capitale dell’Azerbaigian, ma viene da una città che non esiste più: si chiamava Agdam ed è stata rasa al suolo nel 1993 dall’esercito armeno che ha occupato i territori contesi, in una guerra durata 2 anni che ha provocato 30.000 morti e quasi un milione di profughi. L’allenatore di allora, Allahverdi Bagirov, era anche un generale dell’esercito: è diventato un eroe nazionale perché è morto in guerra, in quella guerra. Adesso, svuotata di persone e cose, la città viene descritta dagli abitanti azeri come un insieme di case diroccate, spazzatura, detriti. I più giovani nemmeno sanno dove sia visto che sulle mappe contemporanee è stata ribattezzata Akna con il nome armeno.

IMPRESA – Dal punto di vista storico, quindi, il Qarabag è la squadra dei rifugiati. O dei migranti, come diremmo oggi. Eppure è riuscita con un salto quasi fantasmagorico a raggiungere per la prima volta la Champions League e domani sera cercherà di sbarrare la strada alla Roma all’interno di un vero gioiello di impiantistica, lo stadio Olimpico, costruito nel 2015 e destinato a ospitare almeno una delle partite dell’Europeo itinerante del 2020: può contenere 68.000 spettatori. E il Qarabag spera di riempirlo grazie alla politica dei prezzi popolari tarati sulle possibilità economiche della nazione: il più caro costa meno di 10 euro, le curve 1,50. «Con l’aiuto dei nostri tifosi niente è impossibile» ha osservato l’allenatore Gurban Gurbanov, ex attaccante della nazionale e in panchina dal 2008. E’ stato lui ad avviare il ciclo d’oro del Qarabag, composto di quattro campionati vinti di fila e poi dell’impresa estiva: l’eliminazione del Copenaghen nel playoff ha spalancato le porte della Top 32.

CONSENSO – Dietro a questi risultati sportivi non c’è però solo l’abilità tecnico-tattica di un allenatore o di un centravanti. C’è anche la forza di un governo e di una propaganda, incentrata sulla holding statale Azersun che tira i fili del club e investe sulla squadra per mantenere consenso sul territorio. Per capire il meccanismo bisogna conoscere la realtà dell’Azerbaigian, ufficialmente una repubblica ma di fatto una dittatura personale del presidente Ilham Aliyev, che ha ereditato il “trono” dal padre Heydar, entrato in scena proprio nel 1993 in coincidenza del conflitto (tutt’altro che risolto) con l’Armenia per la regione autonoma del Nagorno, quella da dove nasce il Qarabach. I risultati delle elezioni del 2013 sono stati molto discussi. E la libertà di stampa in campo politico da queste parti non è esattamente un diritto costituzionale. Eppure Aliyev, grazie essenzialmente alla disponibilità di petrolio e gas, conserva ottimi rapporti sia con l’occidente sia con la Russia: non altrimenti avrebbe potuto ospitare un Gran Premio del Mondiale di Formula 1, i Giochi Europei del 2015 e presto una fetta degli Europei di calcio 2020.

LA SQUADRA – Nel Qarabag resiste anche un po’ di tradizione: il vice-allenatore, Mushfiq Huseynov, era il centravanti della squadra che nel 1993, prima dei bombardamenti armeni, vinse campionato e coppa nazionale. La squadra si è esibita nel piccolo stadio di proprietà a Baku fino al playoff con il Copenaghen. Ma domani si gioca nel gioiello della nazione, l’Olimpico, per continuare il miracolo sportivo. Il gruppo dei calciatori è abbastanza giovane e poco conosciuto: ne fanno parte una maggioranza azera, che ovviamente costituisce la colonna della nazionale, a cui si aggiungono due spagnoli (Michel e Quintana), un brasiliano (il “dieci” Pedro Henrique), un norvegese, un sudafricano, persino un haitiano, Donald Guerrier. E non solo. E’ una babele, sì, ma con una radicata identità locale. E’ il club del governo, no?

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