Il calcio seduto di… Monchi

Corriere dello Sport (E.Marini) – Di cognome Monchi fa Verdejo, che poi è l’uva più usata per i vini bianchi spagnoli, sapidi e trasparenti come il direttore sportivo dei giallorossi. Conosciuto da tutti per i suoi colpi di mercato, proviamo a fare un po’ di luce sul giovane Monchi, quello che per tanti anni ha sofferto, e qualche volta gioito, sulla panchina del Siviglia. Il direttore sportivo andaluso, infatti, è cresciuto a forza di “palos” – ovvero a furia di “bastonate”, di insuccessi – come quelli che hanno marcato la sua carriera da portiere di riserva del Siviglia. Anni in cui Monchi ha forgiato il carattere, ma soprattutto ha sfruttato la sua arma migliore, quella del saper ascoltare. Al fianco di campioni del calibro di Maradona, Simeone, Suker o Zamorano e di allenatori come l’argentino Bilardo o Luís Aragonés – due duri dal cuore tenero – il giovane andaluso ha imparato a riconoscere il talento e a gestire l’area sportiva di una società di calcio. Sposato con due figli, Ramón – detto Monchi, che di Ramón è il diminutivo – porta nel cuore i colori del Siviglia, negli occhi le immagini di calciatori semisconosciuti che vede ogni giorno e, nelle orecchie, sempre e solo la musica del famoso carnevale di Cadice, perché come dicono in Andalusia «la vida son dos dias» (la vita è corta, ndr) e lui vive di passioni.

LA GAVETTA – Monchi nasce a San Fernando, città in provincia di Cadice di fronte a Tangeri, in mezzo solo uno stretto lembo di oceano. Il padre, operaio in un cantiere navale, andava a lavorare in bicicletta e per portare qualche soldo in più a casa lavorava al tornio fino a tardi. Ramón non ha avuto un’infanzia agiata, ma ha sempre ricordato che grazie ai sacrifici dei genitori non gli è mai mancato nulla. Appassionato di calcio, iniziò a giocare nell’ Aguila, poi passò al San Fernando e nell’estate dell’87 fece addirittura un provino per la cantera del Real Madrid diretta da un Del Bosque che muoveva i primi passi da allenatore. Ma non se ne fece nulla e così Monchi passò al Siviglia dove divenne, come ama definirsi, tifoso d’adozione. Più che per le sue prestazioni tra i pali, in Spagna salì alla ribalta per un programma tv di satira (“Al ataque”) in cui un imitatore esagerava infortuni, papere e lo spiccato accento del sud di Monchi. La fama quella vera se l’è dovuta conquistare, con organizzazione e lavoro, solo quando ha appeso le scarpette al chiodo e si è buttato nell’avventura da direttore sportivo di un Siviglia sgangherato. Senza soldi si sa che il calciomercato diventa un Everest da scalare, ma Monchi ha dimostrato di avere fiato e gambe per superare ogni ostacolo economico. I suoi colpi li conosciamo tutti, da Dani Alves a Rakitic, da Luis Fabiano a Kanouté, da Keita a Bacca. Ma facciamo un passo indietro perché è proprio grazie a qualche papera di troppo che Monchi ha passato la maggior parte della sua carriera da calciatore in panchina, luogo privilegiato per imparare tutto sul calcio come ha dichiarato anni fa: «All’epoca lo vivevo come un problema, ma ho imparato molto». Studiava le formazioni rivali a tal punto che spesso dava indicazioni ai suoi compagni su come dribblava un attaccante o in quale lato della porta si tuffava di più il portiere rivale. Il soprannome di “Leone di San Fernando”, però, lo si deve a una prestazione top contro l’Atletico Madrid del doblete. Correva l’anno 1996 e il Siviglia sfruttò l’unica occasione buona, così, con Unzué infortunato, toccò a Monchi frenare l’Atleti del Cholo Simeone a suon di parate.

I MAESTRIIl Siviglia del Monchi giocatore era una squadra che si barcamenava tra la prima e la seconda divisione, un fatto che ha permesso all’attuale ds della Roma di distinguere i tanti rincalzi dai pochi campioni che arrivavano a Nervión. Il fiuto del talento lo ha affinato con gli anni, ma già allora Monchi osservava i compagni e provava a capire il perché dei loro successi e dei loro fallimenti. Maradona merita un capitolo a parte, arrivato a Siviglia nella sua fase calante. Monchi ha sempre ricordato il Pibe de Oro con affetto ammettendo che diede solo il 20% di sé in Andalusia, ma che era pari al 200% del resto della squadra. Eppure fu un altro argentino a sorprenderlo, parliamo di un Simeone semisconosciuto arrivato a Siviglia dopo l’esperienza in Italia col Pisa. Il Cholo per Monchi incarnava il modello dell’allenatore sul campo, una roccia dal punto di vista fisico e un genio a livello tattico. Il profilo perfetto del goleador, invece, ha imparato a conoscerlo allenandosi con Zamorano, con Suker o con l’austriaco Polster, attaccanti diversissimi, ma molto efficaci sottoporta. Laureato in giurisprudenza, Monchi si definisce un “politico mancato”, però la sua miglior virtù forse è stata proprio quella della curiosità, che lo ha sempre spinto a studiare cose nuove e a carpire ogni piccolo segreto dai grandi maestri, non solo del calcio.

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