La Roma si prende tutto, derby e secondo posto. Lazio, Champions a rischio

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La Repubblica (E. Sisti) – Game Over” c’è scritto sulla maglietta che Totti esibisce sotto la Curva Sud in festa. Travestiti da epigrammi ambulanti, lui e Florenzi sono il simbolo di un riscatto maturato nel pomeriggio perfetto, nell’unica partita rimasta alla Roma per tornare se stessa, dopo giorni di sbandamento, tremori, solitudini.

La Roma ha vinto il derby come mai avrebbe immaginato: da operaia. Nella mezzora finale l’operaia s’è sfilata la tuta e ha prodotto sostanza, qualità, persino concretezza, cinismo. La Lazio invece l’ha perso tre volte, il suo derby: per non aver segnato subito con Klose (5’), per essersi illusa di poterlo gestire con le forze in calo e infine per non aver capito che il pareggio raggiunto in quelle condizioni era un dono dal cielo. Presumendo un credito per il miglior gioco offerto nel primo tempo, ha forzato la mano al destino. La prova sta nell’esultanza di Djordjevic all’1-1 (torre di Klose su cross di Anderson): nessuna. È il 37’ del secondo tempo. Il serbo torna di corsa a centrocampo col pallone sotto braccio incitando i suoi: «Dai che la vinciamo!». Sopravvalutano se stessi, la situazione, sottovalutano l’importanza del punto. Candreva parte sulla destra in tromba,ha l’aria di chi vorrebbe spaccare il mondo ma, facendo due rapidi conti, si contenterebbe di spaccare la difesa. Non gli riesce. Riparte l’azione giallorossa. Sulla punizione di Pjanic svetta Yanga-Mbiwa al suo primo gol in giallorosso (40’). Tre minuti per riprendersi il derby, Lazio complice, stadio col fiato sospeso. Sulle gambe della Lazio hanno pesato i 120 minuti di Coppa Italia. Sulla testa qualcosa di cui occuparsi in futuro.

La partita l’ha fatta la Lazio nel primo tempo, con la Roma sistemata quasi a catenaccio, Florenzi correva per tutti e Keita era spesso l’ultimo uomo offensivo. La Lazio effettuava lanci a saltare la difesa o raddoppi sulle fasce (spesso Candreva e Anderson sulla stessa corsia), ma non ha quasi mai trovato la velocità che esalta i suoi bei movimenti. Chiusa, la Roma ha vissuto con umiltà la propria condizione, ha tamponato, neppure cercava di impostare. Nello star lì, in un fazzoletto, ad ansimare tutt’insieme, ha forse ritrovato quel senso di cosa comune, quello spirito adolescenziale perduto durante la stagione, così frastagliata e indecifrabile.

Nel secondo tempo la Lazio è mezza cotta. Lì vince Garcia (che a fine partita ha fatto il pugnetto a Pioli mentre De Rossi esagerava mostrando il dito medio ai laziali): fuori Totti e Keita, dentro Pjanic e Ibarbo. La Roma ritrova corsa e spazi, colpi di tacco, sovrapposizioni. Dall’altra parte emerge la paura, come una montagna dal mare. Ibarbo si divora l’1-0 al 25’. La Roma va in vantaggio con Iturbe (in rete dopo quasi otto mesi in campionato). L’argentino sfrutta un duetto Nainggolan-Ibarbo, mentre la posizione e i movimenti di Pjanic sbilanciano la difesa di Pioli (28’). Il vantaggio giallorosso nasce da calcio vero, il pareggio laziale da un’amnesia ingiustificabile, a difesa schierata, il 2-1 da una volontà di gruppo raramente espressa in questi ultimi mesi. Fa quasi tutto la Roma, nel secondo tempo, il tempo delle emozioni. La sua intensità, questo derby imbrigliato, tatticissimo e nervoso, la raccoglie in una spugna, pochi minuti di schizzi inebrianti. I derby perfetti sono quelli vinti di corsa, col fiatone o per sbaglio. All’andata la Lazio, avanti 2-0, si spaventò di se stessa e Totti la castigò. Ieri la Lazio, cui adesso serve un punto per i preliminari, ha peccato di presunzione e la Roma non l’ha perdonata. Tristezza e allegria. Bisogna scegliere.

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