Darcy Norman: “Il rientro di Strootman è stata una corsa ad ostacoli. Lui è diventato un esempio per i compagni”

Darcy Norman, preparatore atletico della Roma, ha rilasciato un’intervista al sito ufficiale giallorosso. L’americano si è soffermato particolarmente sul rientro in campo di Strootman, queste le sue parole:

Kevin Strootman è un caso unico, visto quello che ha dovuto affrontare. Io penso che il suo calvario avrebbe frenato una persona diversa, ma proprio grazie a quella sua forza mentale, ben visibile anche sul campo, è stato capace di superare tutto e di prendersi cura del proprio corpo”.

“Vi dirà che questi infortuni gli hanno insegnato a essere più professionale nel modo in cui si prende cura di se stesso adesso. Io credo che questi infortuni avrebbero davvero portato ad abbattersi una persona meno forte, ma Kevin ha avuto le capacità per affrontarli. È tutto merito suo”.

“Il processo di recupero è come una squadra: ci sono giocatori in vari ruoli e tutti hanno una parte nel processo. Non si vince una partita senza uno di loro e le riabilitazioni non riescono solo grazie ad una persona. Si inizia con la giusta diagnosi dell’infortunio, poi se è necessaria l’operazione, ci vuole un chirurgo d’eccellenza per eseguirla bene, e, in seguito, i fisioterapisti hanno il compito di fare tutto quel lavoro invisibile di recupero dei tessuti molli. Dopo questo, viene il lavoro atletico che li riporta in campo. Proprio come nel calcio ci sono elementi tattici e tecnici per tutto. Ci si chiede costantemente cosa possiamo fare per aiutare di più questa persona?. Naturalmente c’è anche l’aspetto mentale. Alcune persone, come Kevin, è necessario trattenerle, ma altre vanno decisamente spronate a fare di più o motivate fissando obiettivi, date e un percorso di recupero”.

“È un processo come altri e abbiamo un grande team che segue la squadra e lavora al meglio per assicurare che i giocatori si riprendano al più presto possibile. Ogni recupero è uguale, ma allo stesso tempo diverso. Nel calcio hai due terzini destri, ma non sono la stessa cosa, hanno la stessa posizione, ma giocano in maniera leggermente diversa. Ancora una volta, lo stesso vale per gli infortuni: si può trattare dello stesso infortunio, ma il processo di recupero agisce in maniera differente sui giocatori in base a molte variabili, dal lavoro sul tessuto alla tolleranza al dolore e al tipo di fisico”.

Se un giocatore è notoriamente più forte di un altro, allora il processo può avanzare più rapidamente. Tutto questo deve essere tenuto in conto, ma da un punto di vista procedurale facciamo sempre in modo che i giocatori raggiungano determinati requisiti prima di farli avanzare allo step successivo, sia che si tratti di corsa o di cambi di direzione. Questo ci permette di continuare a perfezionare il nostro sistema e di trovare modi sempre più efficaci di accorciare il processo”.

“Ci proponiamo di rendere la riabilitazione così difficile che a confronto la partita sembra semplice. Vogliamo che i giocatori siano pronti a ogni circostanza. Vogliamo che siano preparati al peggiore scenario possibile. Abbiamo persone che dicono: Wow, questo è nettamente più complicato del lavoro che la squadra sta facendo e noi gli rispondiamo che se riescono a resistere a questo possono resistere a tutto. Naturalmente ci sono circostanze che non si possono ricreare prima del ritorno in campo – tackle, contatti – ma queste variabili esistono sempre, non bisogna dimenticare in primo luogo che questi ragazzi si infortunano nonostante un corpo in forma ottimale”.

Il rientro in prima squadra è stata una corsa ad ostacoli per Kevin –  per nessuna persona normale non lo sarebbe stato. È un motivo d’orgoglio per lui il fatto che abbia fatto sembrare tutto semplice. Una cosa che diciamo durante la riabilitazione è che è come essere sul ciglio del Grand Canyon: vuoi avvicinarti al massimo per avere la vista migliore, ma non vuoi di certo sporgerti troppo rischiando di cadere”.

“C’è un libro che si chiama The Obstacle is the Way’ scritto da Ryan Holiday, che in buona sostanza esorta a scontrarsi con gli ostacoli in maniera frontale, perché si può sempre imparare qualcosa da questi. Questa è stata senza dubbio una delle cose che abbiamo rimarcato con Kevin. Sapevamo che era un qualcosa di difficile da affrontare, ma abbiamo rimarcato che ne sarebbe uscito più forte e che questo gli avrebbe dato delle capacità che, pur non sapendo ancora quando, magari l’avrebbero anche aiutato”.

“Quando siamo arrivati, quello di Kevin era il primo grande infortunio al quale abbiamo dovuto far fronte come staff. Lui ha fatto dei progressi, si è comportato bene, ha lavorato sodo, è ritornato in squadra ed è diventato un esempio per i compagni nella stessa situazione. Tutti hanno visto cosa ha dovuto affrontare, per cosa è dovuto passare e il modo in cui ne è venuto fuori. Da quel momento in poi gli altri hanno detto tutti: Ok, farò come Kevin: ci darò dentro, lavorerò duro e rientrerò.

Uno come Mario Rui, guardando Rüdiger, che dopo appena due mesi è ritornato a correre, pensa quello sono io! Seguirò lo stesso cammino, acquista fiducia, diventa più ottimista. Sono tutti ragazzi che vogliono dare il massimo. Florenzi vuole sapere a che punto erano gli altri nelle varie date in modo da potere fare meglio di loro. Questo crea un approccio familiare per loro: si creano degli step e degli obiettivi e in base a questo fanno il possibile per poterli raggiungere. Per quanto sia dura, la sofferenza unisce le persone. Se si attraversano certi momenti insieme, si costruisce una specie di tacito legame. Questo non può che cementare ulteriormente il gruppo”.

 “Lo staff tecnico è encomiabile da questo punto di vista: ci dicono sempre lo riprendiamo solo quando per voi è pronto. Se gli diciamo che per noi un giocatore non è ancora pronto, loro lo accettano. Penso che questo sia uno dei benefici di avere un buon allenatore con un sistema di gioco solido che quando un giocatore è fuori, ne trova un altro per quel ruolo. Magari hanno caratteristiche diverse, ma entrambi conoscono i loro compiti”.

“Se l’allenatore non ha un sistema di gioco di base, dove i giocatori sono in qualche modo intercambiabili, c’è il rischio che si tiri la corda con alcuni giocatori, forzandoli al rientro perché si ha bisogno disperatamente di loro, e che la corda poi si spezzi. Quindi va dato merito allo staff tecnico del fatto che quando hai un buon sistema di gioco, ti alleni con un buon sistema e di conseguenza gli infortuni dei singoli diventano meno importanti e il processo di recupero può essere fatto senza particolari pressioni esterne”.

Norman ha parlato anche di Rudiger:

“I giorni successivi a un grave infortunio sono sempre diversi a seconda dei casi. Prima di arrivare alla Roma ho lavorato con la Nazionale tedesca e sono rimasto in contatto con delle persone lì, che mi hanno informato in tempi rapidi sulle condizioni di Rudiger. Sta a loro decidere dove vogliono operarsi, la vita e il corpo appartengono ai giocatori. Noi possiamo dare dei suggerimenti, spiegando i diversi fattori su cui sono basati, ma alla fine la scelta è del giocatore. Toni e tutti gli altri hanno avuto un’ottima impressione del dottor Mariani, a quel punto la scelta è stata fatta e abbiamo iniziato l’iter. È una di quelle situazioni in cui l’imprevisto è sempre dietro l’angolo. Ma non appena si sceglie la data dell’operazione e il chirurgo, ci uniamo tutti attorno al giocatore e procediamo. È una questione mentale. Nella vita succedono cose brutte. Quando questo avviene bisogna sapere fermarsi e chiedersi: ‘Come possiamo rialzarci?’ Bisogna ricordarsi che i ragazzi infortunati passano due ore al giorno in palestra, poi prima e dopo la palestra fanno terapia, per lavorare sulle articolazioni, per massaggiarle e mantenerle a posto. Sono sei ore al giorno, quasi tutti i giorni. Gli altri della squadra non lo fanno, al massimo si allenano tre ore qualche volta, mentre i giocatori in fase di recupero passano nove ore nella struttura per svariati giorni. Quando si tratta di lavorare sodo, i ragazzi sono incredibilmente concentrati. Nelle ore di riposo, altre persone potrebbero gestire la cosa in modo diverso. Si cerca sempre di rendere la riabilitazione gradevole, mettendo della musica, perché l’umore deve essere alto per sostenere positivamente certi carichi di lavoro. Comunque sono tutti ragazzi competitivi. Se sono riusciti a crescere e a giocare per grandi squadre europee, è ovvio che abbiano una certa disciplina e una certa forza mentale. Per arrivare a certi livelli quel tipo di disciplina e di grinta sono innati e tutti loro ne hanno. Noi siamo qui per aiutarli, ma alla fine sono loro che devono compiere il percorso”.

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